DiStImIcAmEnTe





QUANDO FU NON RICORDO,
MA VENNI PRESO UN GIORNO
DAL DESIDERIO D'UNA VITA VAGABONDA,
DANDOMI AL DESTINO D'UNA NUVOLA
CHE NAVIGA NEL VENTO,
SOLITARIA.
(Basho)

...ma ora...

STO DIVENTANDO VECCHIO.
UN SEGNO INEQUIVOCABILE E' CHE
LE NOVITA' NON MI APPAIONO INTERESSANTI
NE' SORPRENDENTI.
SON POCO PIU' CHE TIMIDE VARIAZIONI
DI QUEL CHE E' GIA' STATO.
(Borges)

domenica 18 agosto 2019

SELFIE 1: Odio i selfie...

...naturalmente ognuno è libero di fare ciò che gli pare, anche di piazzarsi col suo smartphone "tutti fotografi" di fronte ad un monumento per potersi inquadrare con quello alle spalle, rompendo le balle a chi vorrebbe guardare e inquadrare  il monumento o la veduta senza intrusi di mezzo; ma altrettanto sono libero io di considerare "selficienti" gli individui suddetti.
Ma qui c'è di più, ben di più:

Dietro la moda dei selfie c'è la paura di non esistere

Cosa diciamo quando diciamo "io"? Non ne siamo sicuri e per questo ci aggrappiamo all'immagine, inutilmente.



«Tenevano i cellulari il più lontano possibile o si facevano aiutare da appositi estensori. Le meraviglie di Venezia non erano complete senza la testimonianza di un io in mezzo a loro.

Guardatemi, sono qui». È quanto vediamo ogni giorno sui social, dove è tutto un selfie. Ma cos'è un selfie? Un'esibizione dell'io. Ma cos'è l'io? Tra le riflessioni più interessanti sull'identità non ci sono solo quelle degli scienziati (come per esempio Lo strano ordine delle cose, edito da Adelphi, ultimo saggio di Antonio Damasio, intervistato recentemente sul Giornale) ma anche scrittori che, a differenza di tanti altri, frequentano la scienza. Uno di questi, il più bravo, è Ian McEwan, di cui Einaudi ha appena pubblicato Il mio romanzo viola profumato.
Non lasciatevi ingannare dal titolo, che sembra uno di quei romanzi trash per signore di Newton Compton. Si tratta di due brevi testi: il primo è un simpatico racconto in prima persona di un plagio letterario tra due amici scrittori, ma il pezzo forte del libriccino è il saggio intitolato appunto L'io, che inizia proprio con la succitata riflessione sui selfie. Perché «in un'era come la nostra, che idolatra la celebrità e l'autopromozione attraverso la rete, stiamo forse vivendo il colmo di quel che significa un io». Ossia un io svuotato, esibito, narcisistico, completamente di superficie. Non l'io che fa il suo ingresso prepotente in letteratura con Montagne e Shakespeare (ma chissà perché McEwan si dimentica di Cervantes), ma un io di facce e di facciata.
Tuttavia anche l'io narrativo non è altro che una costruzione. La vita non è per niente simile ai romanzi. «Noi non siamo testi», dice Bill Blattner, «le nostre storie non sono narrazioni. La vita è diversa dalla letteratura». Sebbene la vita stessa sia come ce la raccontiamo noi nella nostra testa, di volta in volta, trasformandoci di anno in anno. Ce lo ha spiegato bene Marcel Proust, quando ci dimostra, nel corso della sua Recherche, che moriamo molte volte nel corso della nostra esistenza, mutando impercettibilmente. Così Samuel Beckett nel suo L'ultimo nastro di Krapp: Krapp si illudeva di mantenere il proprio io registrandosi ogni giorno, ma quando da vecchio riascolta i suoi nastri giovanili non si riconosce, è un estraneo a parlare.
Per i neuroscienziati l'io è un'invenzione del cervello (non per altro basta una minima lesione nella corteccia cerebrale per farci cambiare completamente identità). Secondo Oliver Sacks «ciascuno di noi costruisce e vive una narrazione, e noi siamo tale narrazione». Ma gli episodi della nostra identità sono messi insieme arbitrariamente dalla rete neuronale, per dare un senso a un io che altrimenti non starebbe insieme. I nostri stessi ricordi, come ha spiegato lo stesso Sacks, sono spesso inventati, riadattati. Non possiamo fidarci neppure della nostra memoria, per quanto senza memoria non siamo più noi (ne sa qualcosa chi ha un parente malato di Alzheimer). E dunque chi siamo realmente? E siamo veramente liberi? Per Ian McEwan no: «Prima di tutto, un certo scetticismo nei riguardi del libero arbitrio necessario a scrivere e costruirmi un io. Non mi sono scelto l'infanzia, né il patrimonio genetico, non mi sono mai scelto l'io con il quale ho finito per ritrovarmi».
I moderni scrittori americani hanno spesso associato la coscienza dell'io all'esperienza tragica di dipendere da un corpo (la nostra stessa mente è un prodotto del corpo), da Philip Roth a Richard Ford, fino a John Updike, punto di riferimento fondamentale del discorso McEwan. «Quando alzo gli occhi verso l'azzurro terso di un cielo» scrive Updike nel saggio On being a Self Forever, «o poso lo sguardo su una luminosa distesa di neve, prendo coscienza di uno schema fisso di imperfezioni ottiche: macule nel mio umor vitreo, simili a microbi congelati, che vagano incessantemente, di norma inosservate, nel mio campo visivo». Updike la pensa come Proust: «Invecchiamo e ci lasciamo alle spalle una nidiata di io irrimediabilmente defunti».
Sarà per questo che siamo sempre a fotografarci, l'immagine ci sembra l'unica cosa certa, almeno l'immagine del momento, perché basta andare indietro di qualche anno e rivedere vecchi selfie e scoprirci orribilmente invecchiati. Così, conclude McEwan, «possiamo radunarci in massa in luoghi turistici come piazza San Marco, armati di smartphone e pronti a scattare selfie, ma siamo soli dinanzi alla tragica impermanenza del nostro io mentre, come Amleto, affrontiamo la mortalità di questa quintessenza di polvere».

(Massimiliano Parente. Il Giornale Cultura)

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https://www.telegraph.co.uk/science/2017/12/15/selfitis-obsessive-need-post-selfies-genuine-mental-disorder/ 

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Al turista dei luoghi che visita non interessa nulla. È impermeabile a tutto, all'altro da sé che incontra sul cammino. Il momento culminante del viaggio non è più lo scoprire o il conoscere ma la rappresentazione del proprio viaggio, la sua condivisione.

Il turista, al pari del visitatore dello zoo, è più simile al colonizzatore che al viaggiatore. Frappone tra sé e il mondo che visita una griglia culturale ancora più coriacea di quella che, allo zoo, separa gli spettatori dagli animali, rifiutando senza nemmeno passare dal via la possibilità di non giudicare quello che ha davanti con le proprie categorie. E di più, perché non soltanto queste sbarre il turista fa finta di non vederle, ma le desidera, le desidera sopra qualsiasi altra cosa. Perché se i Goethe almeno si sforzavano di uscire dalla propria comfort zone e andavano in giro con una rivoltella per difendersi dei briganti, i moderni Goethe imbrutiti, che lavorando guadagnano e guadagnando pretendono, non fanno un passo fuori dalla propria comfort zone.
Perché ai turisti dei luoghi che visitano non interessa nulla. Il viaggio del turista non è un movimento di apertura, al contrario, è impermeabile a tutto, soprattutto all'altro da sé che incontra sul cammino. Non gli interessa, perché il turista cerca di replicare la propria comfort zone quotidiana in ogni luogo che visita, pronto anche a deturparlo piuttosto che essere al sicuro. Non è un caso che il momento culminante del viaggio non sia più l'esperienza stessa del muoversi, né lo scoprire o il conoscere, ma la rappresentazione del proprio viaggio. È quella che conta ormai, la sua condivisione.
Solo che quando lo faceva Goethe il risultato era un'opera d'arte. Ora ormai è difficile finanche ritrovarsi in quelle grottesche serate diapositive di una volta. Ormai il turismo è solo masturbazione: una sega a due mani in onda 24/7 su Facebook e Instagram.
(linkiesta)




 Il mondo è dei selficienti: una carrellata degli autoscatti più inopportuni del web:
https://m.dagospia.com/il-mondo-e-dei-selfiecienti-gli-austoscatti-piu-inopportuni-dalle-tombe-al-funerale-160210

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