DiStImIcAmEnTe





QUANDO FU NON RICORDO,
MA VENNI PRESO UN GIORNO
DAL DESIDERIO D'UNA VITA VAGABONDA,
DANDOMI AL DESTINO D'UNA NUVOLA
CHE NAVIGA NEL VENTO,
SOLITARIA.
(Basho)

...ma ora...

STO DIVENTANDO VECCHIO.
UN SEGNO INEQUIVOCABILE E' CHE
LE NOVITA' NON MI APPAIONO INTERESSANTI
NE' SORPRENDENTI.
SON POCO PIU' CHE TIMIDE VARIAZIONI
DI QUEL CHE E' GIA' STATO.
(Borges)

giovedì 29 agosto 2019

Conte: con quella "pochette" può fare ciò che vuole


Lettera 14
Dagosapiens, quatto quatto, Conte e la sua “pochette" hanno soddisfatto la loro prima segreta ambizione: diventare personaggio politico internazionale di lungo corso. Se sul suo cammino continuerà a incontrare cialtroni e cialtroncelli (cosa molto probabile, visto il nostro panorama politico) e se il suo Padre Pio continuerà ad assisterlo, dopo il praticantato nei nostri squinternati governicchi, altro che cattedra universitaria: scommettiamo che lo vedremo seduto in una mega-poltrona dorata alla UE e -tempo al tempo- in quella di Presidente della Repubblica?
Vittorio Conquellapochettepuòfareciòchevuole ExInFeltrito

mercoledì 28 agosto 2019

Le 5 pippe di Conte


Lettera 14
Dagosapiens, dunque l’ex-premier non tornerà a insegnare “un minuto dopo” la fine del suo mandato, come dichiarato in passato ma avremo un Conte bis?  Certo, l'uomo è presentabile, ben visto in Europa e da Trump (!); ma non ti sorprende una cosa: che una persona della sua intelligenza stia con i 5 Stelle?? 
Vittorio Cinquepippe ExInFeltrito

giovedì 22 agosto 2019

L'Italia non s'è ancora desta


Foto che illustra perfettamente la situazione politica italiana.
Vittorio Chediocelamandibuona ExInFeltrito

mercoledì 21 agosto 2019

I conti di Conte




Lettera 18
Dagosapiens, tu credi che l’anno bellissimo di Conte finisca qui? Credi che l’ex-Presidente del Governo più squinternato che l’Italia abbia mai avuto non sapesse qual era il suo tornaconto nell’accettare di fare il “Presidente per caso” con quei due? In merito alla fine del suo mandato in un’intervista aveva dichiarato: “Un minuto dopo tornerò ad insegnare”: credi davvero che lo farà? O che invece dopo aver fatto “l’avvocato del popolo” sfrutterà fama e conoscenze fatte in Europa per fare l’avvocato di ben altri clienti, o chissà cos’altro in politica? Con i suoi due vice ha accettato spesso di fare il burattino invece che il burattinaio ma sapeva bene cosa avrebbe avuto poi in cambio. Il nostro Giuseppe non è scemo e grazie all’aiuto di San Di Maio, San Salvini e San Padre Pio adesso…
Vittorio Conteallaresadeiconti ExInFeltrito



domenica 18 agosto 2019

SELFIE 2: Psicologia del selfie



Da un punto di vista psicologico la selfie mania è una mancanza di autostima e sarebbe un valido indicatore di alcune lacune presenti nella propria vita privata. Compulsività, ossessione e ripetitività caratterizzano la personalità di queste persone che impiegano anche ore della giornata per non far mancare sul proprio profilo Facebook o Instagram l’ultimo “selfie”.
Le persone dipendenti dal selfie non sono sicure si sé. Infatti la ricerca continua e assillante di commenti positivi al proprio scatto rappresenta il disperato bisogno di accettazione da parte di chi è insoddisfatto e ha bisogno di rassicurazioni sul proprio aspetto. Basta pensare che cliccare e contare i “mi piace” sia diventata l’unica cosa importante, mentre è molto grave questo immortalare se stessi in questi momenti per condividerli con il mondo e nello stesso tempo avere delle lacune nel vivere le emozioni positive o negative che siano, ma della vita reale di tutti i giorni. La condivisione di momenti resta relegata a un puro universo virtuale dove “il farsi vedere e notare” è l’anticamera per molti disturbi nel medio e lungo periodo quali i disturbi alimentari, primi approcci con droghe ed errate percezioni delle forme del proprio corpo. Da studi scientifici americani (American Psychiatric Association) la selfie mania potrebbe rappresentare i primi segnali di veri e propri disturbi mentali, ma è bene non generalizzare.

Sicuramente l’era tecnologica in cui viviamo non agevola ma incita a essere sempre più isolati e soli nonostante gli innumerevoli contatti che una persona può avere sul suoi profili social.
Perché non ci basta vivere il quotidiano e le emozioni vere? Sapranno le nuove generazioni che il confronto e il dialogo con un’altra persona può arricchire il bagaglio di esperienze e non il conteggio quasi maniacale dei “mi piace”?

Dottoressa Sara Ronchi
psicologasararonchi@virgilio.it

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Diagnosi: selfite.

 Cause e rimedi della selfie-mania

Complici smartphone e altre nuove tecnologie, l’abitudine di scattarsi fotografie da soli e di pubblicarle sui social network è diventata una mania. La situazione è arrivata ad un punto tale da spingere a coniare un nuovo termine per definirla, ossia selfite. Ma dietro a questa ossessione degli autoscatti con lo smartphone sembrerebbe nascondersi una vera e propria malattia. Ad affermarlo è un gruppo di ricercatori della Nottingham Trent University e della Thiagarajar School of Management a Madurai in India.
Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Mental Health and Addiction ha messo a punto una sorta di scala, utile per valutare il livello di gravità della patologia. Questa classificazione ha richiesto un sondaggio su 400 persone in India, Paese che conta tantissimi utenti Facebook e il più alto numero di morti per selfie ‘pericolosi’.
Questo nuovo disturbo mentale infatti si può presentare con tre livelli diversi. Nel primo, definito borderline, quello più lieve, chi soffre di selfite si scatta almeno tre selfie al giorno, ma non li pubblica sui social network. Chi soffre di selfite acuta (la più diffusa nel campione analizzato), invece, si fotografa almeno tre volte al giorno e condivide sempre le immagini sui social. Infine, la selfite cronica è lo stadio più grave e corrisponde alla situazione in cui i selfie diventano vere e proprie ossessioni, il desiderio dell’autoscatto è incontrollabile e le fotografie scattate vengono pubblicate su Facebook e Instagram almeno sei volte al giorno.
Ma perché ci facciamo i selfie?
Senza dubbio, come in tutti i fenomeni di massa, il fatto di seguire la tendenza del momento e fare quello che fanno tutti gli altri semplicemente per spirito di emulazione o per timore di sentirsi diversi gioca un ruolo fondamentale.
Questo aspetto è innegabile, ma c’è anche una spiegazione psicologica, secondo la quale i selfie esprimono il bisogno di autoaffermarsi e di raccontare agli altri, attraverso le immagini, la propria identità. Forse parlare di malattia mentale è un po’ esagerato e fuori luogo, ma fare troppi selfie può nascondere delle insicurezze psicologiche e un grande bisogno di ricevere conferme dagli altri. Alcuni esperti avvertono che dietro all’autoscatto eccessivo potrebbe nascondersi qualche disagio più o meno grave, di natura psicologica.
I selfie nascondono anche il bisogno di ricevere apprezzamenti e di solito, infatti, quando si pubblica una foto su un social network, lo si fa per avere un riscontro positivo.
Per chi è single, ma non vuole più apparire raffigurato in autoscatti solitari agli occhi dei suoi contatti social, l’idea di due artisti canadesi, Aric Snee e Justin Crowe, è davvero geniale. I due hanno infatti creato l’asta che fa le foto come un ‘fidanzato’, ossia un’asta per i selfie a forma di braccio da tenere per la mano, ottenendo delle immagini in cui sembra che dall’altro lato dell’obiettivo ci sia proprio la tua dolce metà.
Sono soprattutto gli adolescenti a dedicarsi in maniera esagerata alla pratica dell’autoscatto. Si tratta di ragazzi insicuri e fragili, solo apparentemente spigliati, integrati e sicuri di sé, che sentono di esistere solo attraverso le immagini e l’apprezzamento altrui. In quella fase delicata di costruzione del sé che è l’adolescenza, questi soggetti rischiano quindi di trovare e costruire solo un’identità illusoria.
Anche se meno numerosi non mancano di certo nemmeno gli adulti affetti da selfite. Quasi sempre sono soggetti immaturi, incapaci di diventare quello che vorrebbero essere e di conseguenza con poca autostima. Pubblicare tanti selfie può essere un meccanismo compensativo che mettono in atto per colmare le loro lacune emotive ed esistenziali.
Come in tutte le cose, anche in questo caso, il paramento di giudizio è quello relativo alla misura. Farsi un selfie ogni tanto, e magari in compagnia, non rientra certo in quelli dell’osservazione psicologica. Il problema nasce quando invece il numero dei selfie realizzati e pubblicati aumenta, arrivando a essere un rituale quotidiano.
Eppure un modo per guarire dalla selfite c’è ed è semplice: basta anteporre la propria quotidianità alla vita virtuale e, invece di perdere tempo con gli autoscatti, imbattersi in vere relazioni sociali o impegnarsi in qualcosa che possa appassionare. Perché se è vero che la selfite non è certo una malattia mortale, la ricerca dimostra che, a lungo andare, aumenta le insicurezze di chi ne è affetto e ne impoverisce la vita interiore.
Alice Berti

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Selfite: è una malattia?


L'abitudine a farsi delle fotografie da soli (selfie) allo scopo di pubblicarle sui social network può diventare addirittura una malattia? Sembrerebbe di sì, visto che è stato coniato un termine, selfite, per indicare chi è “ossessionato” da questa pratica ormai diffusissima, tanto fra i cosiddetti “vip” quanto fra le persone comuni.
Forse parlare di malattia mentale è un po' esagerato, ma fare troppi selfie può nascondere delle insicurezze psicologiche e un grande bisogno di ricevere conferme dagli altri. Approfondiamo l'argomento: vediamo perché si sente il bisogno di fare i selfie e quando quest'abitudine può essere spia di qualche disagio, più o meno grave, di natura psicologica.

Perché si fanno i selfie
Perché si fanno i selfie? Si tratta solo di seguire la tendenza del momento oppure c'è qualcosa di più? Senza dubbio, come in tutti i fenomeni di massa, anche nel selfie gioca un ruolo fondamentale il seguire le mode (spesso lanciate da personaggi famosi, come in questo caso) e il fare quello che fanno tutti gli altri semplicemente per spirito di emulazione o per timore di sentirsi "diversi".
Questo aspetto è innegabile, ma c'è anche una spiegazione psicologica, un po' più "profonda": i selfie esprimono il bisogno di autoaffermarsi, di raccontare agli altri, attraverso le immagini, la propria identità. In questo senso non avrebbero un valore negativo perché permetterebbero alla persona di incanalare il proprio narcisismo in una maniera, anche se non particolarmente costruttiva, nemmeno deleteria per sé e/o per gli altri.
I selfie nascondono anche il bisogno di essere riconosciuti dai propri “simili” e di ricevere apprezzamenti: di solito, infatti, quando si pubblica una foto su un social network, lo si fa per avere un riscontro positivo (in genere si postano belle foto, in cui il soggetto offre agli altri l'immagine migliore di se stesso). Fin qui non ci sarebbe in fin dei conti nulla di male: tutti siamo un po' narcisisti e desideriamo i complimenti e l'apprezzamento degli altri, anche perché la nostra società è molto basata sull'immagine e pochissimi riescono a sottrarsi a questo tipo di condizionamento. Quando però la situazione può sfuggire di mano e toccare i confini della patologia? Vediamolo insieme.

Quando il selfie è indice di problemi psicologici nell'adolescenza
L'abitudine a fare autoscatti può anche diventare una vera e propria mania: parlare di disturbo mentale è probabilmente un po' esagerato e fuori luogo (anche se sembra che l'American Psychiatric Association abbia definito la selfite una vera e propria malattia, con 3 livelli diversi di gravità a seconda di quanti autoscatti si fanno al giorno), ma in alcuni casi si può certo parlare di eccessi che nascondono un disagio psicologico, anche se non grave.
Sono soprattutto gli adolescenti a dedicarsi in maniera esagerata alla pratica dell'autoscatto: e per esagerata si intende più di 6 autoscatti al giorno (subito pubblicati). Si tratta di adolescenti insicuri e fragili, solo apparentemente spigliati, integrati e sicuri di sé. Fare tanti selfie a quest'età può essere indice di un'incapacità di trovare la propria identità: questi adolescenti sentono di esistere solo attraverso le immagini e l'apprezzamento altrui. In quella fase delicata di costruzione del sé che è l'adolescenza, questi soggetti rischiano quindi di trovare e costruire solo un'identità illusoria.
Se vi accorgete che vostro figlio adolescente è fin troppo preso dalla mania degli autoscatti, non è il caso di drammatizzare né di preoccuparsi eccessivamente: potrebbe essere una fase transitoria, ma in ogni caso occorre intervenire per aiutarlo a costruire in maniera alternativa la propria immagine personale e quindi anche la propria autostima. Il coinvolgimento in un'attività vera (sport, volontariato, musica o altro) è in genere la “terapia” migliore.

La mania dei selfie in età adulta
Anche se meno numerosi degli adolescenti, non mancano nemmeno gli adulti affetti da “selfite”: quasi sempre sono soggetti immaturi, incapaci di diventare quello che vorrebbero essere e di conseguenza con poca autostima. Pubblicare tanti selfie per ricevere apprezzamenti e commenti positivi può essere un meccanismo compensativo che mettono in atto per colmare le loro lacune emotive ed esistenziali.
A volte basta poco per uscire da questo meccanismo un po' malato. Anteporre la vita vissuta a quella virtuale, impegnandosi in qualcosa che appassiona veramente e coltivando sane e vere relazioni nella quotidianità, è sicuramente il modo migliore di affrontare questo problema che, anche se non gravissimo, alla lunga rischia di rendere una persona sempre più insicura e di impoverirne la vita interiore. 

SELFIE 1: Odio i selfie...

...naturalmente ognuno è libero di fare ciò che gli pare, anche di piazzarsi col suo smartphone "tutti fotografi" di fronte ad un monumento per potersi inquadrare con quello alle spalle, rompendo le balle a chi vorrebbe guardare e inquadrare  il monumento o la veduta senza intrusi di mezzo; ma altrettanto sono libero io di considerare "selficienti" gli individui suddetti.
Ma qui c'è di più, ben di più:

Dietro la moda dei selfie c'è la paura di non esistere

Cosa diciamo quando diciamo "io"? Non ne siamo sicuri e per questo ci aggrappiamo all'immagine, inutilmente.



«Tenevano i cellulari il più lontano possibile o si facevano aiutare da appositi estensori. Le meraviglie di Venezia non erano complete senza la testimonianza di un io in mezzo a loro.

Guardatemi, sono qui». È quanto vediamo ogni giorno sui social, dove è tutto un selfie. Ma cos'è un selfie? Un'esibizione dell'io. Ma cos'è l'io? Tra le riflessioni più interessanti sull'identità non ci sono solo quelle degli scienziati (come per esempio Lo strano ordine delle cose, edito da Adelphi, ultimo saggio di Antonio Damasio, intervistato recentemente sul Giornale) ma anche scrittori che, a differenza di tanti altri, frequentano la scienza. Uno di questi, il più bravo, è Ian McEwan, di cui Einaudi ha appena pubblicato Il mio romanzo viola profumato.
Non lasciatevi ingannare dal titolo, che sembra uno di quei romanzi trash per signore di Newton Compton. Si tratta di due brevi testi: il primo è un simpatico racconto in prima persona di un plagio letterario tra due amici scrittori, ma il pezzo forte del libriccino è il saggio intitolato appunto L'io, che inizia proprio con la succitata riflessione sui selfie. Perché «in un'era come la nostra, che idolatra la celebrità e l'autopromozione attraverso la rete, stiamo forse vivendo il colmo di quel che significa un io». Ossia un io svuotato, esibito, narcisistico, completamente di superficie. Non l'io che fa il suo ingresso prepotente in letteratura con Montagne e Shakespeare (ma chissà perché McEwan si dimentica di Cervantes), ma un io di facce e di facciata.
Tuttavia anche l'io narrativo non è altro che una costruzione. La vita non è per niente simile ai romanzi. «Noi non siamo testi», dice Bill Blattner, «le nostre storie non sono narrazioni. La vita è diversa dalla letteratura». Sebbene la vita stessa sia come ce la raccontiamo noi nella nostra testa, di volta in volta, trasformandoci di anno in anno. Ce lo ha spiegato bene Marcel Proust, quando ci dimostra, nel corso della sua Recherche, che moriamo molte volte nel corso della nostra esistenza, mutando impercettibilmente. Così Samuel Beckett nel suo L'ultimo nastro di Krapp: Krapp si illudeva di mantenere il proprio io registrandosi ogni giorno, ma quando da vecchio riascolta i suoi nastri giovanili non si riconosce, è un estraneo a parlare.
Per i neuroscienziati l'io è un'invenzione del cervello (non per altro basta una minima lesione nella corteccia cerebrale per farci cambiare completamente identità). Secondo Oliver Sacks «ciascuno di noi costruisce e vive una narrazione, e noi siamo tale narrazione». Ma gli episodi della nostra identità sono messi insieme arbitrariamente dalla rete neuronale, per dare un senso a un io che altrimenti non starebbe insieme. I nostri stessi ricordi, come ha spiegato lo stesso Sacks, sono spesso inventati, riadattati. Non possiamo fidarci neppure della nostra memoria, per quanto senza memoria non siamo più noi (ne sa qualcosa chi ha un parente malato di Alzheimer). E dunque chi siamo realmente? E siamo veramente liberi? Per Ian McEwan no: «Prima di tutto, un certo scetticismo nei riguardi del libero arbitrio necessario a scrivere e costruirmi un io. Non mi sono scelto l'infanzia, né il patrimonio genetico, non mi sono mai scelto l'io con il quale ho finito per ritrovarmi».
I moderni scrittori americani hanno spesso associato la coscienza dell'io all'esperienza tragica di dipendere da un corpo (la nostra stessa mente è un prodotto del corpo), da Philip Roth a Richard Ford, fino a John Updike, punto di riferimento fondamentale del discorso McEwan. «Quando alzo gli occhi verso l'azzurro terso di un cielo» scrive Updike nel saggio On being a Self Forever, «o poso lo sguardo su una luminosa distesa di neve, prendo coscienza di uno schema fisso di imperfezioni ottiche: macule nel mio umor vitreo, simili a microbi congelati, che vagano incessantemente, di norma inosservate, nel mio campo visivo». Updike la pensa come Proust: «Invecchiamo e ci lasciamo alle spalle una nidiata di io irrimediabilmente defunti».
Sarà per questo che siamo sempre a fotografarci, l'immagine ci sembra l'unica cosa certa, almeno l'immagine del momento, perché basta andare indietro di qualche anno e rivedere vecchi selfie e scoprirci orribilmente invecchiati. Così, conclude McEwan, «possiamo radunarci in massa in luoghi turistici come piazza San Marco, armati di smartphone e pronti a scattare selfie, ma siamo soli dinanzi alla tragica impermanenza del nostro io mentre, come Amleto, affrontiamo la mortalità di questa quintessenza di polvere».

(Massimiliano Parente. Il Giornale Cultura)

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https://www.telegraph.co.uk/science/2017/12/15/selfitis-obsessive-need-post-selfies-genuine-mental-disorder/ 

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Al turista dei luoghi che visita non interessa nulla. È impermeabile a tutto, all'altro da sé che incontra sul cammino. Il momento culminante del viaggio non è più lo scoprire o il conoscere ma la rappresentazione del proprio viaggio, la sua condivisione.

Il turista, al pari del visitatore dello zoo, è più simile al colonizzatore che al viaggiatore. Frappone tra sé e il mondo che visita una griglia culturale ancora più coriacea di quella che, allo zoo, separa gli spettatori dagli animali, rifiutando senza nemmeno passare dal via la possibilità di non giudicare quello che ha davanti con le proprie categorie. E di più, perché non soltanto queste sbarre il turista fa finta di non vederle, ma le desidera, le desidera sopra qualsiasi altra cosa. Perché se i Goethe almeno si sforzavano di uscire dalla propria comfort zone e andavano in giro con una rivoltella per difendersi dei briganti, i moderni Goethe imbrutiti, che lavorando guadagnano e guadagnando pretendono, non fanno un passo fuori dalla propria comfort zone.
Perché ai turisti dei luoghi che visitano non interessa nulla. Il viaggio del turista non è un movimento di apertura, al contrario, è impermeabile a tutto, soprattutto all'altro da sé che incontra sul cammino. Non gli interessa, perché il turista cerca di replicare la propria comfort zone quotidiana in ogni luogo che visita, pronto anche a deturparlo piuttosto che essere al sicuro. Non è un caso che il momento culminante del viaggio non sia più l'esperienza stessa del muoversi, né lo scoprire o il conoscere, ma la rappresentazione del proprio viaggio. È quella che conta ormai, la sua condivisione.
Solo che quando lo faceva Goethe il risultato era un'opera d'arte. Ora ormai è difficile finanche ritrovarsi in quelle grottesche serate diapositive di una volta. Ormai il turismo è solo masturbazione: una sega a due mani in onda 24/7 su Facebook e Instagram.
(linkiesta)




 Il mondo è dei selficienti: una carrellata degli autoscatti più inopportuni del web:
https://m.dagospia.com/il-mondo-e-dei-selfiecienti-gli-austoscatti-piu-inopportuni-dalle-tombe-al-funerale-160210

giovedì 8 agosto 2019

Taylor Mega chi?? & C.

Dagosapiens, l’hai pubblicato ma mi auguro che tu non condivida l'elogio che quella tua Barbara Costa fa di Eloisia Todesco (per le persone con la testa a posto) alias Taylor Mega (per i deficienti) ma in questo povero mondo e in questa deficientissima Italia c’è bisogno di tutto fuori che di persone come quella ragazza. E una. Due: ”La Lega non vuole poltrone” dice Salvini mentre sega quella dorata sotto il tenero culo di Conte. E avanti con i proclami.  Tre: prima Berlusconi, poi Renzi e ora Salvini: che differenza c’è tra loro e la Mega di cui sopra? Nessuna: tutti e quattro, vittime della loro fama e del loro potere si son montati la testa, hanno perso il senso della misura, cercano i “likes” di un popolo bue e dentro di loro pensano: “Ma quanto son scemi questi che ci “likano?”. Dagosapiens, dobbiamo proprio andare avanti così? Dove si sono nascoste le poche persone serie di queso Paesello? Tu ne vedi? Dubito; infatti il tuo sito è lo specchio di questa nostra Italietta che balla allegra e svaccata sul Titanic de’ noantri, come dite voi a Roma ex-ladrona e ora …poltrona. Mandi, da un Friuli che rimpiange l’Austria Felix; e stami bèn.
Vittorio Nelpaesedipulcinella ExInFeltrito