DiStImIcAmEnTe





QUANDO FU NON RICORDO,
MA VENNI PRESO UN GIORNO
DAL DESIDERIO D'UNA VITA VAGABONDA,
DANDOMI AL DESTINO D'UNA NUVOLA
CHE NAVIGA NEL VENTO,
SOLITARIA.
(Basho)

...ma ora...

STO DIVENTANDO VECCHIO.
UN SEGNO INEQUIVOCABILE E' CHE
LE NOVITA' NON MI APPAIONO INTERESSANTI
NE' SORPRENDENTI.
SON POCO PIU' CHE TIMIDE VARIAZIONI
DI QUEL CHE E' GIA' STATO.
(Borges)

venerdì 28 marzo 2014

Obama Vucumprà



Lettera 10
Ciò che è fuor di dubbio è che gli F-35 costano uno sproposito. Per il resto, difficile capirci qualcosa. Dicono che c'è un nero che gira per Roma a fare il vucumprà (ci avrà provato anche con Francesco?). Dicono che i suoi aerei sono delle patacche. Dicono che solo i gonzi li comprerebbero. Ma, domanda: se sono delle patacche, perchè mai gli stessi Stati Uniti ne prenderebbero 2400 ? E' verosimile che vogliano affidare la loro sicurezza a 2400 patacche?
Vittorio Obamavucumprà Vividoppio ExInFeltrito

mercoledì 26 marzo 2014

Quello che Della Valle non sa




Lettera 6
Della Valle, l'imprenditore illuminato (dai riflettori della tv), imperversa con i suoi sermoni. A Ottoemezzo, leccato ben bene da Lillibotox, anche ieri ha sparso pillole di sapere un po' su tutto. O quasi; perchè, dopo aver biasimato Moretti e il suo stipendio, l'unica risposta che doveva sapere non l'ha data: "Quanto guadagna l'amministratore delegato delle sue ferrovie?" "Non lo so". Con una risposta così, un giornalista vero se lo sarebbe mangiato vivo, il dottor "So tutto io". La Gruber non ha fatto una piega.
Vittorio Diego&Lilli Vividoppio ExInFeltrito


Minorenni...


Ecco, mettiamo che hai la fortuna di incontrare una così: riesci a pensare che sia minorenne?

lunedì 24 marzo 2014

San Berlinguer



Mi ha sbalordito l’ondata di culto quasi religioso che ha accolto il film di Walter Veltroni su Enrico Berlinguer. Una folla di vip si è inchinata davanti all’ombra del segretario del Pci come si usa fare con i santi. E dopo l’inchino si prega, si chiede una grazia, si piange commossi. Ma Berlinguer era davvero un santo? No, era un leader politico di prima fila, nonostante i molti errori compiuti e l’handicap di non aver mai battuto il partito avversario, la Balena bianca democristiana. E penso che, almeno per me, l’unico modo per rendergli giustizia, senza inutili piaggerie, sia quello di ricordarlo in due o tre casi che ho vissuto anch’io.
La prima volta che intervistai Berlinguer era il giugno 1976, vigilia elettorale. Lavoravo per il Corriere della sera e mi presentai alle Botteghe oscure con un quaderno, una biro e un elenco di domande. Mi accolse Tonino Tatò, l’assistente, l’angelo custode, il suor Pasqualino di re Enrico, sempre all’erta. Era l’opposto del principale: un incrocio tra il centurione e il barbiere di lusso, aitante e sboccato. Mi accolse a muso duro: «Hai scritto sul partito delle formidabili stronzate! Chi te le ha raccontate tutte ’ste balle su Enrico che ho letto nella tua inchiesta sul Pci?».
Cominciò a scorrere le mie domande alla velocità del suono. Poi emise il primo giudizio: «Cazzo!». Non gli piaceva la domanda su Dubcek, il leader cecoslovacco messo a terra dai carri armati sovietici nel 1968: «Lascia perdere Dubcek, porta jella!». E meno che mai quella sulla Nato: «Che c’entra la Nato con l’obbligo di sconfiggere ’sti cazzo di democristiani?».
Invece Berlinguer rispose a tutte le mie domande, e a proposito della Nato disse di sentirsi più sicuro in Occidente che sotto il Patto di Varsavia. Mi diede un’intervista coraggiosa, anche se conosceva più di tutti il peso dell’Unione sovietica. Infatti il testo del nostro colloquio (cinque ore di lavoro, compreso il lungo controllo della prima stesura, e le tantissime Turmac fumate dal segretario) venne subito inviato all’ambasciata sovietica di Roma. Nella persona di Enrico Smirnov, il primo segretario, un funzionario intelligente che parlava alla perfezione l’italiano.
Che cosa accadde dopo quel secondo controllo, lo compresi quando l’intervista apparve la stessa mattina sul Corriere e l’Unità. Nel testo pubblicato dal quotidiano comunista erano scomparse tutte le domande e le risposte sulla Nato, proprio quelle che stavano provocando un dibattito alla grande sul «Nato-comunismo» di Berlinguer. Allora telefonai al direttore dell’Unità, Luca Pavolini, e gli chiesi conto della censura. Replicò con una risata: «Pensi davvero che un povero direttore possa censurare il segretario generale del Pci?». Compresi che domande e risposte erano state sbianchettate per ordine di re Enrico e su richiesta dell’ambasciata dell’Urss. Certe eresie non potevano apparire sul giornale ufficiale del partito, una specie di Vangelo intoccabile.
Rispetto all’Urss, anche Berlinguer poteva godere appena di una sovranità limitata. Persino quando azzardò il famoso strappo, dichiarando che la forza propulsiva del comunismo sovietico si era esaurita, non gli fu possibile mutare campo per incontrarsi con i socialdemocratici europei. Del resto aveva ingaggiato una guerra all’ultimo sangue con il leader dei socialisti italiani, Bettino Craxi. Il nemico vero del Pci non era la Dc, ma il segretario del Psi. Ed è una favola che li dividesse la questione morale. Anche il Pci si finanziava con le tangenti, poiché i generosi contributi di Mosca non bastavano mai
Craxi era considerato un nemico perché insidiava la forza politica dei comunisti. In una nota riservata del 1978, scritta da Tatò per Berlinguer, veniva dipinto così: «Un avventuriero, anzi un avventurista, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, del tutto estraneo alla classe operaia».
Nel 1984, quando Craxi diventò presidente del Consiglio e presentò un decreto legge sulla scala mobile, diretto a far calare l’inflazione, con una riduzione molto modesta dei salari, contro il leader del Psi Berlinguer scatenò una guerra senza quartiere. Il segretario del Pci, di solito molto misurato nel parlare, arrivò a dire: «L’ostinazione di Craxi nel tenere in piedi quel decreto rasenta i limiti di un atto osceno in luogo pubblico». E il 20 febbraio di quell’anno, quattro mesi prima di morire, sparò una raffica di accuse contro il segretario socialista: non tollera il Parlamento, pratica metodi autoritari, il suo decreto è un attentato a una delle libertà irrinunciabili della democrazia repubblicana. Morale: Craxi cerca una crisi politico istituzionale che può essere di proporzioni impensabili.
Più di una volta ho visto Berlinguer scherzare col fuoco. Era accaduto anche nell’ottobre 1980, quando la Triplice sindacale decise di bloccare la Fiat Mirafiori. Il segretario del Pci non era per niente d’accordo con il blocco: lo considerava una battaglia perduta. E non aveva nessuna voglia di muoversi dalle Botteghe oscure per correre a Torino. Poi si convinse che non andarci avrebbe leso la sua immagine di capo supremo della sinistra.
Si presentò al cancello 5 di Mirafiori, avendo a fianco l’inseparabile Tatò, più che mai aitante, e uno scheletrico Piero Fassino, che allora era il funzionario del Pci torinese incaricato di seguire le fabbriche. E regalò ai blocchisti qualche parola che a molti cronisti, me compreso, sembrarono davvero incaute: «Se si arriverà all’occupazione della Fiat, dovremo organizzare un grande movimento di solidarietà in tutta l’Italia. Esistono esperienze di un passato non più vicino, ma che il Pci non ha dimenticato. Noi metteremo al servizio della classe operaia il nostro impegno politico, organizzativo e di idee».
La promessa ebbe un seguito che mi venne raccontato dal leader della Cgil, Luciano Lama. Lui non voleva l’occupazione della Fiat e chiese a Berlinguer: «Credi di aver fatto bene ad andare al cancello di Mirafiori?». Con una smorfia di fastidio, re Enrico rispose: «In questo momento bisogna spendere tutto e dare ai lavoratori la prova che noi siamo con loro. E poi guarda che io non ho detto che loro dovevano occupare la Fiat. Ho soltanto sostenuto che, se l’avessero fatto, il Pci sarebbe stato con gli operai».
Però Lama era un romagnolo e non accettava di essere preso in giro dal segretario del suo partito. Gli replicò: «Caro Berlinguer, la differenza c’è. Ma per chi ti ha ascoltato quel giorno davanti alla Fiat non è poi così grande». Berlinguer non aprì bocca. E offrì a Lama soltanto il proprio aspetto: una figura smilza, da adolescente che non ha mai giocato a pallone, le spallucce un tantino incassate, la schiena già curva, un viso più vecchio dei suoi 58 anni, un pallore grigio da fatica, occhiaie, rughe, una barba da fine giornata pressoché bianca, il solito vestito un po’ informe, la cravatta rossiccia annodata alla meglio.
Se fosse ancora in vita, oggi Berlinguer avrebbe 92 anni. A Matteo Renzi non servirebbe rottamarlo. Del resto, i giovani di oggi non sanno più chi sia questo politico sardo che si è trovato al centro di mille tempeste. Per fortuna, esistono ancora i vecchi cronisti, come il sottoscritto. Veltroni dovrebbe ringraziarci uno per uno poiché diamo un senso alla sua nuova vita da regista di documentari.
di Giampaolo Pansa

martedì 18 marzo 2014

Grillo e Angelona Merkel

Grillo vince alle elezioni europee e va a parlare con Angelona Merkel. 
G. "Non abbiamo tempo da perdere con te".
M. "Leck mir am Arsch!"
Fine colloquio.
Traduzione:
http://www.dizionariotedesco.org/it/dizionario-tedesco-italiano/leck+mich+am+arsch
Vittorio Vividoppio ExInFerltrito

martedì 11 marzo 2014

Feltri ammazza neonati


Lettera 6
"Finora tu e i tuoi boy scout vi siete distinti per la vostra assenza. Non ci siete, e se ci siete dormite". Feltri: capisco che tutti abbiamo paura di illuderci di nuovo, ma ha 2 (due) settimane di vita il neonato governo, e già gli spariamo addosso così? Una volta si aspettavano i primi cento giorni, ora bastano quindici?
Vittorio Sparalesto Vividoppio ExInFeltrito

venerdì 7 marzo 2014

Giudici chiacchieroni e ...altro.


Lettera 10
Forse nulla vieta che un giudice di Cassazione (nella fattispecie, il chiacchierone Esposito) accetti di giudicare qualcuno che ha frequentazioni con suo figlio. Ma FORSE a un chiacchierone non passa per la testa che, per evitare chiacchiere, FORSE è più opportuno rinunciare.
Vittorio Forsechesìforsechenò Vividoppio InFeltrito

giovedì 6 marzo 2014

Anche "Il Fatto" oggi commemora Maxim Dalemovich...



IL PODERE LOGORA CHI CE L’HA – MA CHE TRISTEZZA IL MAGO DALEMIX IN VERSIONE CINCINNATO CHE ESALTA L’ULIVO (LA PIANTA, NATURALMENTE) ‘DA 1500 €’ E IL ‘CANE BUONO CHE PUÒ UCCIDERE’ – L’EX ‘LOTHAR’ VELARDI: ‘UNA DERIVA TRISTE E BILIOSA, D’ALEMA NON HA PIÙ NULLA DI POLITICO’

Corrias: ‘La passeggiata di D’Alema con Friedman tra le colline della sua proprietà è un prezioso capitolo sui danni a cui conduce il potere e una gag da commedia all’italiana’ – ‘I 15 ettari di azienda agricola, battezzata proustianamente La Madeleine, non fanno che moltiplicare il rimpianto che emana dopo le molte avventure finite in sconfitte’…

Pino Corrias per ‘Il fatto Quotidiano'
VELTRONI E DALEMAVELTRONI E DALEMA
La passeggiata di Massimo D'Alema tra le terre emerse della sua proprietà umbra fatta in compagnia di Alain Friedman - tra ulivi secolari "che valgono millecinquecento euro, pensa, millecinquecento euro l'uno!" e cani "che non mordono, ma direttamente uccidono" - è un prezioso capitolo sui danni, anche psichiatrici, a cui conduce la deriva del potere e del potente quando corrosi dalle alte temperature della solitudine, del narcisismo ferito e del rimpianto non più riconciliato: "Mi occupo dell'Italia solo nelle pause, tra un impegno internazionale e l'altro". Ma per fortuna è anche una irresistibile gag comica (per quanto involontaria) di eterna commedia italiana. La quale non conduce mai alla scespiriana tragedia.
Ma finisce sempre per riconciliarci con questo amato Paese eternamente fatto di macerie e maccheroni. Perché tra le sue immense risorse (specie emotive) sopravvive la capacità di guardare con un certa tenerezza persino i titolari delle suddette macerie (e maccheroni). In fondo anche loro vittime del crollo, e del troppo sugo, come il Berlusconi impietosamente struccato nelle foto del Sunday Times.
WALTER VELTRONI E MASSIMO DALEMA jpegWALTER VELTRONI E MASSIMO DALEMA JPEG
O in questo commovente D'Alema danzante, in bianco padronale, che di vigna in vigna, si riempie gli occhi contabilizzando le sue soleggiate proprietà: "Quella collina fa parte dell'azienda, diciamo, e poi anche il versante che non si vede... E anche laggiù, fino a quella altura...".

Estensioni che deglutisce goloso, preparandosi a esibire le sue nuovissime competenze enologiche: "Facciamo due vini. Uno in purezza senza solfiti. L'altro più strutturato". E pazienza se "purezza" non vuol dire "senza solfiti", quello che conta è il braccio teso ad accarezzare il vasto orizzonte campestre che dovrebbe stupirci: "Massì, siamo una piccola azienda agricola, diciamo, che dà lavoro a più di qualcuno". Ed ecco, dal viottolo, sbucare un cane, che lo sollecita a tranquillizzare l'ospite: "É un cane buonissimo". Buonissimo? Non del tutto: Be', se percepisce il pericolo, uccide", sogghigna. Gli piace la perentorietà del verbo.
MASSIMO DALEMAMASSIMO DALEMA
E quello che gli ispira: "Sempre obliasti, Aiace Telamonio/ogni prudenza in guerra, ogni preghiera", che poi sarebbe un Cardarelli novecentesco (e ridondante) che recita per presentarci non sé medesimo, ma il cane: "Ecco lui è Aiace, l'unico maschio dell'allevamento", a confermare un sottinteso, oppure un riverbero, tra le qualità del cane e del padrone, la capacità di uccidere dell'uno e di andare in guerra dell'altro. Che è intrinseca biografia offerta all'anglo giornalista.
E privato turbamento, per essersi intestato la sola guerra italiana a non essere rinominata "missione di pace", quella contro la Serbia, anno 1999, 10mila obiettivi bombardati in due mesi, con il plauso di Cossiga e della Nato, più gli sghignazzi della destra, compiaciuta per come si mostrava al mondo l'ex pioniere del Pci di Togliatti arrivato finalmente a manovrare non solo i bottoni, ma anche gli otturatori del potere. E ora un potere al tramonto lo assedia, proprio lì, tra Narni e Otricoli.
Al punto che i 15 ettari di azienda agricola, battezzata proustianamente La Madeleine, che è come dire Nostalgia, non fanno che moltiplicare il rimpianto che emana. A dirne la fissità rurale, il ripiegamento provinciale, dopo le molte avventure di palazzi romani finite in sconfitte. Dopo i marosi cavalcati su Ikarus.
Massimo DalemaMASSIMO DALEMA
E le altrui scale della politica traversate su scarpe cucite a mano. Tutti i residui di quelle fascinazioni danarose - "D'Alema piace alla destra perché anche lui disprezza la sinistra" - sono in questa risacca di nobiluomo in ritiro volontario e sdegnoso. Non rottamato da altri, sia chiaro. Che lo fanno assomigliare allo straziante protagonista dell'Ultimo nastro di Krapp di Beckett, assediato dagli anni ormai trascorsi. Ma sempre raccontandosi come l'eterno viaggiatore del film Tra le nuvole (lo nota Giuseppe Salvaggiulo nella notevole biografia Il peggiore) quando incanta gli anziani nelle feste di paese "con le sue fantasmagoriche avventure planetarie".
MASSIMO D ALEMA INTERVISTATO DA ALAN FRIEDMANMASSIMO D ALEMA INTERVISTATO DA ALAN FRIEDMAN
"Recentemente sono stato in Brasile". "Vengo da New York, tutti gli anni partecipo all'assemblea della Clinton Foundation, di cui sono socio". "Io sono stato al congresso dell'Spd a Berlino". "Noi abbiamo fatto un convegno a Parigi". "Arrivo da Bruxelles, sto per partire per la Cina, vuol vedere il visto?".

È così che riemerge ogni tanto, elegantissimo, tiratissimo, ospite di Lilli Gruber - "Sono appena rientrato dalla Polonia, è successo qualcosa?" - gonfio di stizza e indispettito. Indispettito dalle domande. Indispettito dall'Italia, dalla bassa politica, da Matteo Renzi, "il ragazzino". Ma specialmente dal vuoto. "D'Alema non ha più nulla di politico
- dettò il suo ex maestro di sartoria Claudio Velardi - . Lo dico con affetto antico che sconfina nella tenerezza e nella pena. Ha imboccato una deriva triste e biliosa. Ormai siamo nella psicologia non è in pace con se stesso".

Molti anni fa, quando ancora si immaginava skipper d'ogni corrente, diceva: "Andare a vela è un grande insegnamento per la politica e la vita. In vela sai che non puoi andare controvento, ma sai pure che piegandoti di 30 gradi, puoi risalirlo. Questo è un insegnamento per la vita: se non ti pieghi non vinci". Peccato che a forza di piegarsi, senza mai andare controvento, abbia perso (quasi) tutto. Perché continua a guardare senza vedere. Neanche con i suoi ulivi ci riesce, pensa che siano soldi sonanti, invece che vita.
MASSIMO D ALEMA INTERVISTATO DA ALAN FRIEDMANMASSIMO D ALEMA INTERVISTATO DA ALAN FRIEDMANMASSIMO D ALEMA INTERVISTATO DA ALAN FRIEDMANMASSIMO D ALEMA INTERVISTATO DA ALAN FRIEDMAN

mercoledì 5 marzo 2014

Ollio-Friedman e i "gacciopàdi"


05-03-2014


Lettera 8
"Il gacciopado è dapeciucio", dice Alan-Ollio-Friedman a Piazza Pulita, cavalcando il suo scoop su Monti (il quale durante le interviste con "Ollio" era uno Stanlio quasi perfetto: mancava solo che si fosse grattato un po' il ciuffo). Ma cioootamente, Ollio-Friedman: i gattopardi sono dappertutto. E siamo ciuci gacciopadi; forsi anchi ciù, che sei sempe in tiliviscione a facci le ciue anglosassoni pediche; magari in compagnia di un redivivo come quel tale Casarini, ex del Centro Sociale "Pedro", poi "Tuta bianca", poi "Disubbidiente", poi "No-global", poi consulente di marketing, poi scrittore per la Mondadori di Berlusconi, ora richiestissimo opinionista nei pollai televisivi.


E comunque grazie, Ollio, per averci fatto vedere Stanlio-Monti e il gattopardo Maxim Dalemovich, ex-velista di lusso (ma sempiterno veleggiatore), ora "lavoratore della terra" nella sua dacia.
P.S. Ma ci sarà ancora qualcuno che avrà il coraggio di farsi intervistare-distruggere da Friedman?
Viccioio Gacciopado InFelcicio