DiStImIcAmEnTe





QUANDO FU NON RICORDO,
MA VENNI PRESO UN GIORNO
DAL DESIDERIO D'UNA VITA VAGABONDA,
DANDOMI AL DESTINO D'UNA NUVOLA
CHE NAVIGA NEL VENTO,
SOLITARIA.
(Basho)

...ma ora...

STO DIVENTANDO VECCHIO.
UN SEGNO INEQUIVOCABILE E' CHE
LE NOVITA' NON MI APPAIONO INTERESSANTI
NE' SORPRENDENTI.
SON POCO PIU' CHE TIMIDE VARIAZIONI
DI QUEL CHE E' GIA' STATO.
(Borges)
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domenica 22 aprile 2018

3) Stato-Mafia, la trattativa. La sentenza secondo Facci

“NON C'È PROVA DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA” - FILIPPO FACCI: “RESTA DUNQUE UNA ‘TRATTATIVA’ SENZA LOGICA MA SOPRATTUTTO SENZA UNA CARTA, UN DOCUMENTO O QUALSIASI ALTRA FONTE CHE NE ATTESTI L'ESISTENZA: LE ‘PROVE’ SONO TUTTE TESTIMONIANZE MOLTO TARDIVE DI MAFIOSI E DINTORNI, E LO SCAMBIO SAREBBE IL MANCATO RINNOVO DEI 41BIS DA PARTE DEL MINISTRO CONSO. LE TESI DELLA PROCURA SONO STATE SCONFESSATE 4 VOLTE. LA SENTENZA SARA’ ROVESCIATA IN APPELLO”.

Ritenta, sarai più fortunato. Già distrutto da quattro sentenze, l' impianto del processo «trattativa» ha trovato fortuna (diciamo) in un dispositivo incredibilmente scandaloso, soprattutto per i pochissimi che sanno davvero di che cosa stiamo parlando: ma, se questo è ancora un paese occidentale, il dispositivo non durerà, e verrà rovesciato in Appello e in Cassazione. Questo è pacifico: ma nella breve distanza, intanto, succede quel che succede.

La prima balla è che non si sapesse come sarebbe finita, anzi, che sia stata «una sentenza che pochi si aspettavano» come ha scritto ieri La Stampa, giornale che forse, con quel «pochi», si riferiva a chi seguiva ancora il processo e non l'avesse derubricato tra le follie siciliane di cui nessuno capisce niente - nè gl' importa - come pure, tra addetti ai lavori, si diceva capissero i giudici popolari. Ma i giudici popolari, si dice anche, non contano nulla, e infatti il vero protagonista resta lui, Alfredo Montaldo, il giudice del dibattimento su cui le difese riponevano poche speranze non solo per il comportamento in istruttoria, ma per via del curriculum.
È il giudice, tra l'altro, che nel 1995 tenne Calogero Mannino in carcere per una vita, e che, dopo che Mannino aveva perso 40 chili tra le sbarre, disse che era stata una sua scelta dietetica perché si nutriva solo di verdure. Mannino è stato assolto con rito abbreviato nel 2015: ma qui siamo al punto che a non contare nulla non sono solo i passati comportamenti dei giudici - questo è normale - ma neppure le chiare e inoppugnabili sentenze che già hanno spiegato che non ci fu nessuna «trattativa» tra Stato e mafia, in Italia.

Le sentenze precedenti, soprattutto quella del processo Mori-Obinu (mancata cattura di Provenzano) fu vergata dal giudice Mario Fontana e ha costituito un fantasma che tutti avvertivano ma che nessuno vedeva: forse per le motivazioni cristalline che fornì, forse per come distrusse la stessa parte di procura che oggi festeggia, forse perché chi si scagliò contro i tre giudici del processo Mori-Obinu - come Marco Travaglio - ne ricavò 150mila euro da dover risarcire.

I TESTI RESPINTI 
Non si sapeva come sarebbe finita - ora dicono - ma a parte che non è finita (i primi gradi, in Italia, sono fatti per essere rovesciati) c' era comunque la montagna di documenti della difesa che non erano stati accolti, soprattutto c' erano i testi respinti: compresi calibri come Ilda Boccassini, Giuseppe Ayala e Antonio Di Pietro.
Non si sapeva come sarebbe finita, ma la maniera in cui il gip Piergiorgio Morosini subentrò al gip Michele Alaimo fu colta come un segnale. Anche perché Morosini, poi passato al Csm, nel 2011 scrisse un libro («Attentato alla giustizia») in cui si citavano ampiamente «i recenti sviluppi sulla "trattativa" tra Stato e mafia che sarebbe sullo sfondo delle stragi del 1992 e 1993».

Poi ci sarebbe il citatissimo «mutato clima politico», ma queste son cose da dietrologi.
Una sorta di compiacimento neo-stagionale si coglie soprattutto dal modo in cui tanti giornalisti han scritto della sentenza, mentre per il resto è innegabile soltanto (soltanto?) che la sentenza influenza l' unica trattativa certa (quella per la formazione di un governo) e che la modifica è in chiave anti-Forza Italia: la quantità di scemenze dette nelle scorse ore evidenzia, per tornare a una battuta di Berlusconi, che Mediaset non ha abbastanza cessi per farli pulire a tutti i grillini che dovrebbero farlo.

Ecco, forse si può dire che non si sapeva che i giudici avrebbero aderito a tal punto con le richieste dell' accusa, consentendo ora il delirio dei riscrittori della storia d' Italia in chiave criminale. Più o meno così: le stragi dei corleonesi di Riina ebbero alcuni uomini delle istituzioni tra i complici del ricatto mafioso fatto allo Stato: da qui la condanna per «violenza e minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario», ciò che fece piegare un governo alle richieste di Cosa nostra. Politici e carabinieri avrebbero cioè offerto l' attenuazione del carcere duro per 300 mafiosi già in galera, ma la trattativa sarebbe proseguita anche dopo l' arresto di Riina (1993) e avrebbe portato altri benefici come il mancato arresto del successore di Riina, Bernardo Provenzano.

Nel dispositivo è nominato Berlusconi perchè legato a Marcello Dell'Utri, ritenuto una sorta di ambasciatore dell'ulteriore ricatto che dal 1994 avrebbe condizionato il primo governo Berlusconi. Nel dispositivo si dice che per fermare le stragi del 1992-93 ben tre governi della Repubblica accettarono di venire a patti con Cosa nostra. Ergo: 12 anni di condanna per gli ex generali Mario Mori e Antonio Subranni, altri 12 per Dell' Utri, otto per l' ex colonnello Giuseppe De Donno, 28 per il boss Leoluca Bagarella.

Assolto l'ex ministro Nicola Mancino, che ieri gongolava stucchevolmente come se al centro del processo ci fosse stato solo lui. Ci sono anche 8 anni per Massimo Ciancimino, testimone che cercò d' inguaiare l' ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Traduzione del Fatto Quotidiano e di Antonio Ingroia: la Seconda Repubblica è stata edificata nel sangue delle stragi e se questo teorema non verrà confermato (perché di teorema ideologico di tratta) significa che in futuro qualcuno condizionerà negativamente la magistratura.

IL PARADOSSO DI MORI
Soffermarsi sulle assurdità delle accuse e sul nonsense dell' intero processo necessiterebbe di qualche pagina, anche perché l' accusa ha atomizzato e parcellizzato l' istruttoria in rivoli che hanno fatto perdere la visione d' insieme. Tra i vari assurdi, spicca in particolare l' incredibile paradosso del generale Mario Mori (l' uomo che ha fatto fare a Riina 25 anni al 41bis) e che era già stato assolto per vicende ora rinverdite: la mancata cattura di Provenzano e la mancata perquisizione del covo di Riina.

Resta dunque una «trattativa» senza logica ma soprattutto senza una carta, un documento o qualsiasi altra fonte che ne attesti l' esistenza: le «prove» sono tutte testimonianze molto tardive di mafiosi e dintorni, e l' unica prova di scambio sarebbe il mancato rinnovo dei 41bis da parte del ministro Giovanni Conso, che però riguardò soltanto galeotti di secondo piano. Conso peraltro ha testimoniato che prese la sua decisione in solitudine e senza pressioni, come confermarono tutti i testi istituzionali: Violante, Martelli, Amato, Rognoni, Andò, Pomodoro, Contri, Ferraro, Gratteri, Savina e Principato.

Al giudice non è importato. Nelle sue motivazioni della sentenza sarà divertente leggere come verrà bypassata anche la tenuta logico-giuridica dell' imputazione (criticata dai massimi giuristi del Paese) e soprattutto l' esistenza del giudicato già formatosi nel citato processo-clone Mori-Obinu, oltre alla presenza di accusatori già condannati per calunnia. In termini di diritto (roba complicata) c' è poi da registrare l' assenza dell' elemento oggettivo e soggettivo delle condotte illecite (ossia la consapevolezza e la prova del fatto avvenuto) nonchè la presenza, nell' istruttoria di Nino Di Matteo, delle stesse «convergenza del molteplice» e «circolarità delle informazioni» che nel fallimentare processo su Via D' Amelio, quella sulla strage che uccise Paolo Borsellino, permisero al pm Nino Di Matteo di mandare in galera per 18 anni degli innocenti.

Un avvocato ha detto, rivolto alle telecamere: abbiamo perso questa battaglia, vinceremo la guerra. Speriamolo, altrimenti saremo davvero alla fantasia (mentale) al potere.

Filippo Facci
(Libero 22.4.18)


domenica 11 gennaio 2015

Il delirio di Travaglio

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano

Daniele luttazziDANIELE LUTTAZZI
Commovente questa appassionata difesa della libertà assoluta di satira da parte dei peggiori censori italioti. Gente che per vent’anni ha leccato politici e potenti di ogni colore, praticato e giustificato censure, chiesto e ottenuto la cancellazione di programmi in tv fino alla totale abolizione della satira dalla Rai,

si lancia ora come scudo umano a protezione dei corpi ormai esanimi dei giornalisti e vignettisti di Charlie Hebdo, quindi a costo e rischio zero, difendendo il diritto-dovere della satira di attaccare chiunque, senza limiti di tono né di buon gusto, foss’anche una divinità o un’intera religione, in qualunque parte del mondo. Purché, of course, non in Italia. Il loro motto è: scherza coi fanti e pure coi santi, ma lascia stare i politici italiani.
Daniele luttazziDANIELE LUTTAZZI

La storia di Daniele Luttazzi, ostracizzato da tutte le tv da 13 anni, parla da sé. Nel 2001 finisce nel mirino del Cda Rai perché, nel suo Satyricon su Rai2 diretta da Carlo Freccero, ha osato annusare gli slip rossi di Anna Falchi e mangiare una finta cacca di cioccolata in polemica con il consigliere Alberto Contri, che l’ha accusato di coprofagia; poi s’è azzardato a intervistare Pannella e Flores d’Arcais, che hanno criticato il Vaticano. Ma il suo peccato mortale è invitare il sottoscritto, il 14 marzo, 40 giorni prima delle elezioni, a presentare L’odore dei soldi, un libro scritto con Elio Veltri sui rapporti di B. (e Dell’Utri) con la mafia e le misteriose origini delle sue fortune.
SABINA GUZZANTISABINA GUZZANTI

Tema largamente disertato dalla cosiddetta informazione. Da quella notte succede di tutto. Mario Landolfi (An), presidente della Vigilanza, spara: “Il programma di Luttazzi va chiuso, Freccero dev’essere allontanato, Zaccaria e tutto il vertice Rai devono dimettersi”. Paolo Romani (FI): “Attacco proditorio, vergognoso, senza precedenti contro il presidente Berlusconi sul servizio pubblico. Chiediamo una riunione immediata della Vigilanza per chiedere le dimissioni del vertice Rai e dei suoi direttori”.

Marco TravaglioMARCO TRAVAGLIO
B. scende da Arcore a Roma, parla con Bossi (“è più indignato di me”), poi riunisce a pranzo il consiglio di guerra: Casini, Letta, Bonaiuti, Buttiglione, Pisanu, La Loggia, Scajola e Tremonti. Passa la proposta Casini: la Casa delle Libertà (si chiama così) diserterà tutti i programmi Rai. Due giorni, non di più. Cossiga parla di “crimine politico alla Rai”. Il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Mario Petrina, duetta con Emilio Fede al Tg4 e si scaglia contro Luttazzi e il sottoscritto: denuncia il primo per “esercizio abusivo della professione giornalistica” e invoca per il secondo un procedimento disciplinare per lesa “deontologia”.

Anche da sinistra si spara a zero. Ecco il verde Marco Boato: “Quel che è accaduto a Satyricon è inaccettabile, tanto più grave in quanto avvenuto a Camere sciolte. In una democrazia non si fanno processi sommari per via mediatica. Non è satira, ma una scorretta operazione televisiva”.
giuliano ferrara a spasso con i cani foto colantoni gmtGIULIANO FERRARA A SPASSO CON I CANI FOTO COLANTONI GMT

E Francesco Rutelli, candidato premier: la reazione della Cdl contro Satyricon “è stata legittima rispetto all’uso di una trasmissione per fare propaganda politica, ma c’è il diritto di replica”. D’Alema afferma: “Satyricon è un boomerang per la sinistra”. Fede invece osserva: “Satyricon è un boomerang per la sinistra”. E Dell’Utri, più sobrio: “Luttazzi è un cretino”.

Il Foglio di Giuliano Ferrara e il Giornale si associano alla richiesta di cacciare Luttazzi e il vertice Rai che non l’ha zittito in tempo. Sul Corriere, Paolo Franchi sostiene che la sua “non è satira”. Oltre a quelle pubbliche – e alla raffica di cause civili miliardarie firmate da B., Dell’Utri, Tremonti, Fininvest, Mediaset e Forza Italia contro di lui, contro Freccero e contro gli autori ed editori de L’odore dei soldi – Luttazzi riceve anche minacce private: lettere anonime, dossier sulla sua vita privata, telefonate mute, strane intrusioni in casa sua.
dell utri in bellusconeDELL UTRI IN BELLUSCONE

Anche perché Il Giornale di Belpietro ha pensato bene di pubblicare la sua dichiarazione dei redditi, col suo indirizzo ben visibile. E, nell’indifferenza generale, è costretto a girare sotto scorta per mesi, con le auto della polizia che circondano i teatri durante i suoi spettacoli.

Almeno quei pochi teatri che non gli negano il palco per motivi di opportunità politica. Satyricon intanto viene chiuso, prim’ancora dell’editto bulgaro di B. (18 aprile 2002) contro Biagi, Santoro e Luttazzi. Non riaprirà mai più.
Carlo FrecceroCARLO FRECCERO
   
Il 16 novembre 2003 va in onda – tra mille difficoltà – la prima puntata di RaiOt di Sabina Guzzanti, dedicata alle tv di B. e alla legge Gasparri allora in discussione. Un trionfo: 18,37% di share, con punte del 26. Record della serata tv, record storico di Rai3. Infatti il programma viene subito sospeso e poi chiuso dal vertice Rai (presidente Lucia Annunziata, dg Flavio Cattaneo, direttore di rete Paolo Ruffini, Cda con noti intellettuali liberali come Alberoni, Petroni, Rumi, Veneziani). I grandi giornali giustificano l’epurazione.

Sebastiano Messina, su Repubblica, insinua una manovra studiata a tavolino dalla Guzzanti per passare da martire: “Un concitato gioco delle parti nel quale il fantasma della censura berlusconiana – dunque dell’intolleranza del potere – è riuscito a far litigare furiosamente il direttore di Rai3 e la più brava imitatrice di Berlusconi e D’Alema... Questa surreale commedia dell’assurdo è cominciata quando Ruffini... ha chiesto agli autori di RaiOt di rinviare di una settimana l’esordio per ‘un problema di opportunità’, alla vigilia dei funerali per i caduti di Nassiriya...

shadya avec lex premier ministre italien dalemaSHADYA AVEC LEX PREMIER MINISTRE ITALIEN DALEMA
Ma sollevava anche – senza ipocrisia – la questione della compatibilità di ‘alcuni momenti del programma’ con la ‘sobrietà’ di Rai3... Gli autori e la protagonista hanno ceduto precipitosamente alla tentazione di dimostrare al mondo (con un intempestivo pathos rivoluzionario) che la realtà si adeguava alla satira, e il Berlusconi in carne e ossa faceva esattamente quello che loro gli facevano dire nella parodia televisiva, censurando proprio la sfida alla censura”.

Sabina Guzzanti Draquila BerlusconiSABINA GUZZANTI DRAQUILA BERLUSCONI
Il pretesto usato dalla Rai per la serrata, oltre alla mancanza di “sobrietà”, è che Mediaset (teoricamente la concorrenza) ha denunciato il programma per 20 milioni. I giornali se la bevono e rincarano la dose, portando altra acqua al mulino della censura. Giordano Bruno Guerri osserva sul Giornale che RaiOt “non fa ridere”, “dice un sacco di sciocchezze preconcette” e soprattutto si permette di “prendersela con Lucia Annunziata solo perché è presidente della Rai e brava e donna... I sabiniguzzanti piangono sempre che non c’è libertà di dire e sono sempre lì a dire quello che vogliono ovunque, anche sui muri: naturalmente tra i collaboratori dietro le quinte ci sono Curzio Maltese e Marco Travaglio, ormai Bibì e Bibò”. Il Foglio deride la Guzzanti che “grida al regime, ciancia di censura e va in onda” (sic).

sabina guzzanti nei panni di silvio berlusconiSABINA GUZZANTI NEI PANNI DI SILVIO BERLUSCONI
Esprime “solidarietà a Ruffini”. Andrea Marcenaro trova che l’“arricciare il naso” di Sabina è tipico dei cocainomani. Per Giuliano Ferrara la Guzzanti “dovrebbe stare zitta” perché “ha qualcosa di teppistico e crassamente ignorante”. E la censura se l’è cercata lei “apposta per gridare al regime”, “rompendo ogni regola, come fecero Santoro e Biagi”.

Poi, bontà sua, riconosce che la proposta del vertice Rai “di produrre cinque puntate, farle vedere ai signori amministratori editori, e poi e solo poi mandarle in onda, visto sottoscritto e autorizzato, non è bella, tutt’altro”. E così viene scavalcato in intolleranza dal direttore del Riformista, Antonio Polito: “Se si esclude l’ipotesi che la Rai sia Hyde Park Corner, bisogna concludere che ieri il Cda della Rai si è comportato come il Cda di un’azienda...
SATYRICON RAI LUTTAZZI TRAVAGLIOSATYRICON RAI LUTTAZZI TRAVAGLIO

Leggiamo vibrate proteste per attentati alla libertà di satira, di attacchi alla democrazia, di dissenso imbavagliato... Non c’è né censura né punizione, né per il direttore di rete, che pure aveva seri dubbi sull’opportunità di mandare in onda RaiOt, né per la Guzzanti. In questo ha ragione la Annunziata... E ora? Spetta alla Guzzanti. Ci sono ampi margini per far ridere irridendo i potenti senza indulgere all’invettiva e senza offendere mezzo mondo, ebrei compresi. Li sfruttino da bravi professionisti ben pagati, nei limiti della deontologia, cui forse la satira non è tenuta ad attenersi, ma il servizio pubblico radiotelevisivo sì”. Il solito Messina, su Repubblica, parla di “brutto programma” che “non funziona”, non è “satira, ma comizio”.
 Stavolta gli attacchi alla satira da sinistra superano addirittura quelli da destra: chi chiede alla Guzzanti di registrare le altre puntate e sottoporle all’imprimatur del Cda e della Vigilanza (la satira “col permesso de li superiori”), chi invoca “moderazione”, chi “contraddittorio”, chi “par condicio”. La satira col bilancino.
Nel novembre 2008 Luttazzi torna in tv dopo sette anni su La7 con Decameron. Che però viene chiuso dalla rete l’8 dicembre, dopo la quinta puntata. Il pretesto è una visione surreal-pornografica di Luttazzi, che descrive Giuliano Ferrara in una vasca da bagno piena di escrementi con B., Previti e la Santanchè in completo sadomaso armata di frustino.
Ma il vero movente è che sta per andare in onda la sesta puntata sul Papa, il Vaticano e i preti pedofili. I soliti giornaloni scrivono che non è censura: è Luttazzi che è volgare e blasfemo. Ecco: la satira, con buona pace di Aristofane, Ruzante e Rabelais, dev’essere pia, ossequiente e rispettosa del bon ton. Almeno in Italia.


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Filippo Facci contro Travaglio e Luttazzi: che c'entra l'editto islamico con quello bulgaro?

Bene, ora spiegaci che c’entra l’editto islamico con l’editto bulgaro, spiegaci che cosa c’entra - caro Marco-senza-vergogna-Travaglio - la vostra industrietta macinasoldi con la satira vera, quella degli ammazzati di Parigi che graffiavano nella carne viva del pianeta: la religione, l’islam, l’ebraismo, l’Occidente, la crisi. Spiegaci che cosa cazzo c’entra (scusa la parola cazzo, ma fa sempre satira) con le vostre cazzate dove il rischio massimo era una reprimenda di Sandro Bondi; che cosa c’entra cioè il martirio vero (inteso come pericolo di vita) con il martirio finto (inteso come requisito di carriera).
La rivista Charlie Hebdo rischiava la pelle ogni giorno senza guadagnarci granché, si faceva il mazzo per sopravvivere sul mercato: non pretendeva d’essere inserita d’ufficio nella tv di Stato con programmi scadenti, roba che poi moriva da sola anche nella tv privata (come a La7) perché semplicemente non faceva ascolti: vero Luttazzi?, vero Guzzanti?, vero Dandini?, eccetera. Le vignette danesi riprese dai francesi giocavano in un altro campionato, non erano le mutande di Anna Falchi o le cacche di Daniele Luttazzi o il Papa sodomizzato all’Inferno che tanto piaceva a Sabina Guzzanti, non erano le barzellette sporche per le quali voi presunti satiri scomodavate Senofonte e l’articolo 21 della Costituzione, ergendovi a oppressi. Gli ammazzati di Hebdo non facevano comizi a manifestazioni di capi-partito come Grillo o Di Pietro, non andavano in vacanza con fonti univoche e poi politiche come Ingroia, non facevano spettacolini teatrali e libri e dvd e pseudo-lezioni universitarie e monologhi in prima serata da Santoro: facevano satira per davvero e li ricorderemo come esempio coraggioso di libertà di opinione, non li ricorderemo per “l’odore dei soldi” di cui non è rimasto nulla se non i soldi (tuoi) e l’odore (vostro).
Gli ammazzati di Hebdo non pretendevano immunità giudiziarie e civili per autoproclamazione, non pretendevano di poter dire tutto quello che volevano su chi volevano e come volevano: senza mai pagarne un prezzo, perché “la satira non si processa”. Non evocavano di continuo il regime e la censura, non pretendevano di essere intoccabili persino da una magistratura peraltro acclamata, insomma: non avevano bisogno di pararsi il sedere col diritto di satira ogni volta che gli scappava una cazzata. Perché loro, la satira, non la facevano su Ruby e sulla Carfagna, non la facevano dicendo nano e ciccione o piegandosi su cartacce giudiziarie d’accatto: loro la facevano sulle libertà individuali e collettive sin dagli anni Sessanta, mica su Berlusconi per vent’anni di fila. E ora tu, macchietta rinsecchita e senza sorriso, a sangue caldo torni a romperci le palle coi tuoi ciclostile sul regime, e a pagina 22 del Fatto Quotidiano ospiti pure l’equilibrato Luttazzi che si paragona ai francesi e scrive testualmente che «non c’è bisogno di trasferirsi nei Paesi arabi per trovare resistenze alla satira sulla religione», rivelandoci di aver ricevuto minacce di morte e d’esser stato costretto a mesi sotto scorta.
Ma certo, è un paragone calzante, dietro casa di Luttazzi erano pronti Ferrara e la Santanché coi kalashnikov, c’era anche un piano per prendere ostaggi nel fortino clandestino della Raidue targata Freccero. O forse no, Travaglio e Luttazzi non dicevano sul serio. Forse era satira anche quella, dev’essere così. Comunque occhio: i tre terroristi francesi li hanno seccati, Ferrara e la Santanchè e Berlusconi sono ancora in giro.
di Filippo Facci

venerdì 3 ottobre 2014

De Magistris? De Manettis? De Fiaschis?


“STIMATO MAGISTRATO”? PRIMA DI “WHY NOT”, “POSEIDONE” E “TOGHE LUCANE”, LA CARRIERA DI DE MAGISTRIS ERA GIÀ UN RICCO REPERTORIO DI PATACCHE - DAL PROCESSO SUI FINANZIAMENTI ILLECITI IN CALABRIA A QUELLO SULLA “CLINICA DEGLI ORRORI”

Poi c’è stata la prima inchiesta di De Magistris sulla massoneria. Il pm ipotizzava che un gruppo di “muratori” si riunisse ogni venerdì per tramare contro la regione Calabria: furono inquisiti in 31 per violazione della Legge Anselmi e truffa e associazione per delinquere. Poi gli inquisiti restano sei. In udienza preliminare, tutti prosciolti…



1) Luigi De Magistris fu nominato magistrato di tribunale l’8 luglio 1996 e giunse a Catanzaro quell’anno stesso. Vi rimarrà quattro anni. Il primo procedimento di cui si ha notizia riguarda una contestazione per evasione fiscale a un impresario funebre che però muore prima del rinvio a giudizio. I parenti si oppongono all’archiviazione e all’udienza preliminare riescono ottenere il proscioglimento: «Il fatto non sussiste».

de magistris chiusura campagna elettoraleDE MAGISTRIS CHIUSURA CAMPAGNA ELETTORALE
2) Di seguito De Magistris ipotizza illeciti finanziamenti della Regione Calabria per otto strutture alberghiere: 54 indagati tra i quali vari assessori. C’è anche Giuseppe Nisticò, presidente della Regione, e l’avvocato dello Stato Aldo Stigliano. Quest’ultimo viene prosciolto in udienza preliminare. Per il filone “hotel Sibari”, vengono prosciolti tutti gli imputati perché «il fatto non sussiste».

Nisticò e famiglia sono prosciolti anche loro. Il fratello del presidente regionale viene inquisito da De Magistris anche per falso ideologico e sottrazione di beni sequestrati: prosciolto dal gup. Filone “hotel Marina di Bruni e Marina di Marchese”, finanziati dall’Unione europea: 18 imputati (compreso un comandante di polizia, un assessore all’ambiente, il capo di gabinetto regionale) vengono assolti in primo grado e anche in Appello, nel 2008.

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3) Inchiesta 1471/96 sulla cosiddetta «clinica degli orrori»: ne fanno le spese 21 incensurati di una clinica privata con accuse turpi: violenza contro un centinaio di malati mentali, omicidio, favoreggiamento di latitanti, falsi certificati per esonerare dei figli di mafiosi dal militare, sequestro di persona. Clamore mediatico, La vita in diretta (Raidue) si sofferma per settimane.

Tutto era fondato sulle confidenze rese a De Magistris da un ex infermiere. Tra gli arrestati un primario già medico militare pluridecorato con diverse missioni all’estero alle spalle, medico legale nella stessa Procura che l’aveva arrestato, gravemente infartuato dopo la carcerazione. De Magistris, a un anno dal primo arresto, lo incarcerò una seconda volta e tentò di coinvolgere anche Giuseppe Chiaravalloti, avvocato generale presso la Corte d’Appello e futuro presidente della Regione: ma il procedimento che lo riguarda, dopo varie intercettazioni telefoniche, finirà in nulla.
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L’udienza preliminare dell’’inchiesta “clinica degli orrori” sfocia in una sentenza di non luogo a procedere per tutti: De Magistris impugna la sentenza, ma nel gennaio 1999 la Corte d’Appello conferma i proscioglimenti. La vicenda si inerpicherà in un totale di 11 processi in 10 anni, e alla fine saranno assolti tutti gli imputati tranne uno: l’infermiere che aveva fatto da confidente di De Magistris. Il cardiopatico Bonura e il trapiantato di fegato Salvatore Moschella, invece, riceveranno 50mila e 180mila euro per ingiusta detenzione. La clinica, sputtanata, sarà ceduta. La Corte d’Appello liquiderà ingenti riparazioni anche per gli altri.

4) Prima inchiesta di De Magistris sulla massoneria. Il pm ipotizza che un gruppo di “muratori” si riunisca ogni venerdì per tramare contro la regione Calabria: vengono inquisiti in 31 per violazione della Legge Anselmi e truffa e associazione per delinquere eccetera. Poi gli inquisiti restano sei. In udienza preliminare verranno tutti prosciolti perché «il fatto non sussiste».
giannini ballaroGIANNINI BALLARO

5) Inchiesta 174/97 contro cinque assessori comunali accusati di abuso d’ufficio, tra essi la madre di un giudice di Catanzaro, dove lavora De Magistris. Vengono tutti prosciolti alla fine del 1997 perché «il fatto non sussiste» e per «assoluta inconsistenza dell’accusa». De Magistris ricorre fuori tempo massimo. Tra le accuse c’era quella di aver fatto una ri-assunzione in Comune con una delibera irregolare: ma a stabilire che era regolare c’era già una sentenza del Tar del settembre 1995. Ma De Magistris aveva proceduto lo stesso.

6) Inchiesta 609/96 sulla costruzione del nuovo palazzo di giustizia di Catanzaro: diciassette indagati e «tentativo di abuso d’ufficio» e «tentativo di truffa aggravata» ipotizzati per tre personaggi che implicano la complicità dei vertici della magistratura catanzarese. Si ipotizza un ruolo della massoneria. Il sequestro del palazzo in costruzione viene subito revocato dal Tribunale della libertà.
luigi de magistris attore in una mini fiction 4LUIGI DE MAGISTRIS ATTORE IN UNA MINI FICTION 4

Viene coinvolto il procuratore Generale Giuseppe Chiaravalloti che sarà prosciolto in udienza preliminare e anche in Appello. Per quanto riguarda l’inchiesta sul nuovo palazzo di giustizia, quattordici indagati vengono archiviati e tre (febbraio 1998) vengono prosciolti perché il fatto non sussiste. De Magistris fa appello: respinto. Allora De Magistris trasmette alla Procura di Messina (competente su Reggio Calabria) una nota dove si ipotizzava che Chiaravalloti avesse rivelato dei segreti d’ufficio: archiviata. Dalla sentenza si evince che le indagini su Chiaravalloti erano cominciate quando era ancora avvocato generale a Catanzaro, cioè nella stessa sede giudiziaria dove operava De Magistris: una procura aveva indagato su se stessa.

luigi de magistris attore in una mini fiction 2LUIGI DE MAGISTRIS ATTORE IN UNA MINI FICTION 2
7) Breve inchiesta con l’accusa di falso contro alcuni farmacisti comunali che a dire di De Magistris non avevano obliterato alcune fustelle, ossia i talloncini dei prezzi presenti sulle scatole dei medicinali: verrà fuori che i farmacisti non avevano potuto obliterare le fustelle perché proprio De Magistris, per altro procedimento, aveva sequestrato l’apparecchietto per l’obliterazione. Archiviato tutto.

8) Inchiesta Artemide che porta all’arresto per corruzione dell’assessore regionale all’Ambiente. Tre mesi di carcere, ma il processo non ci sarà per intervenuta prescrizione.

9) De Magistris nel settembre 2003 chiude le indagini sul sindaco di Catanzaro (e altri) accusato di svariati reati come falso, abuso d’ufficio e concussione. Nel gennaio 2008 tutti gli imputati (compreso il sindaco e il comandante dei vigili) vengono assolti perché «il fatto non sussiste». Dalla sentenza si apprende che De Magistris ha condotto indagini «in modo poco distaccato e obiettivo... senza procedere ai necessari approfondimenti investigativi». De Magistris ricorre in Appello, ma la sentenza viene confermata.
De Magistris TapiroDE MAGISTRIS TAPIRO

10) Inchiesta su irregolarità negli esami di procuratore legale: risulta evidente che, su 2301 partecipanti, 2295 avevano copiato. De Magistris però non riesce a dimostrarlo e il procedimento finisce in nulla.

11) Inchiesta su due villaggi turistici a Botricello (Catanzaro, 2003) ai danni di diciotto persone, 4 anni di sequestro, finanziamento europeo che va perduto. Nel maggio 2007 il gup proscioglie tutti i malcapitati e ne cita semmai la «condotta corretta e trasparente». Altri due sequestri (2004) riguardano i cantieri per le strutture di Davoli Marina e di Berenice: secondo il pm la concessione edilizia (n. 15 del 23/5/2003) è irregolare, ma il Tribunale della libertà revoca il sequestro per insussistenza dei presupposti e la cosa è definitiva perché De Magistris non ricorre. Rimangono i danni, ma sempre meno gravi di quelli per il sequestro di Marinagri, grande comprensorio che prevedeva un porto marino e imponenti strutture.

luigi de magistrisLUIGI DE MAGISTRIS
Il magistrato tenta di sequestrarlo una prima volta nel 2007, ma il Tribunale della libertà e la Cassazione rispondono picche. De Magistris ottiene ugualmente il sequestro ipotizzando violazioni del Piano Idrogeologico, anche se la competente l’Autorità di Bacino l’aveva ritenuto regolare. 1726 lavoratori devono fermarsi per più di un anno (senza contare i 293 acquirenti italiani ed esteri) ma De Magistris non concluderà l’inchiesta perché si candiderà alle Europee nel 2009. A Policoro, dove vivono centinaia di famiglie investite dal sequestro di Marinagri, si costituisce una “Associazione vittime di De Magistris”.

12) All’inizio del 2004 De Magistris prova a sequestrare un intero ospedale regionale, il Pugliese-Ciaccio di Catanzaro, ma il gip respinge la richiesta. Il pm chiede l’arresto di dieci persone per associazione per delinquere in relazione a un appalto di lavanderia: il gip concede le manette solo per tre. Il 24 febbraio De Magistris si dispone da solo il sequestro, facendolo controfirmare a un altro magistrato.

LUIGI DE MAGISTRIS INDOSSA I VESTITI DI UN IMMIGRATO SENEGALESE NEL CALENDARIO DIVERSAMENTE UGUALILUIGI DE MAGISTRIS INDOSSA I VESTITI DI UN IMMIGRATO SENEGALESE NEL CALENDARIO DIVERSAMENTE UGUALI
Arrivano le telecamere di Ballarò (11 marzo) e al caso è dedicata quasi un’intera puntata. Poi il Tribunale della libertà revoca il sequestro ed evidenzia macroscopici errori di diritto: De Magistris non ricorre neppure. Il procedimento finirà a Roma per competenza, e nel luglio 2007, dopo aver giudicato inutilizzabili tutte le intercettazioni, è non luogo a procedere per tutti. Prosciolti. Altri due filoni sanitari finiranno con archiviazioni.

13) Inchiesta sul presidente della Regione Agazio Loiero, accusato di vari reati legati a forniture mediche all’ospedale di Catanzaro. Nel febbraio 2008 è accolta la richiesta di non luogo a procedere avanzata da un pm che ha sostituito De Magistris, che è in ferie. La sentenza non viene impugnata.

LUIGI DE MAGISTRIS CON GLI ORECCHINI ROSSI PER IL GAY PRIDE DI GIUGNOLUIGI DE MAGISTRIS CON GLI ORECCHINI ROSSI PER IL GAY PRIDE DI GIUGNO
14) De Magistris manda ad arrestare cinquantasette persone con un’accusa da brivido: associazione per delinquere finalizzata all’introduzione di clandestini da avviare alla prostituzione e al traffico d’organi. Gli arresti, d’urgenza, non passano neanche dal giudice. Tra gli ammanettati una stimata professoressa catanzarese già protagonista di iniziative nel mondo del volontariato: l’accusa si tradurrà nell’aver assunto una badante clandestina per la madre morente, eventuale reato che, notò il gip, non prevedeva neppure il carcere. Manco a dirlo, le assoluzioni con formula piena furono la regola per «totale assenza di prove».

15) Nel 2004 De Magistris arresta sei persone (anche due ex deputati e un giornalista) e ne indaga trentaquattro tra prefetti, sottosegretari, assessori, consiglieri, magistrati e quant’altro. Accusa: associazione mafiosa, violenza, minaccia a corpo giudiziario. Finisce sequestrato anche un giornale che avrebbe ordito per delegittimare dei magistrati di Reggio Calabria.

DE MAGISTRISDE MAGISTRIS
Il Tribunale del Riesame annulla molti arresti perché tra gli intercettati c’erano dei parlamentari. Il presidente dei gip archivia tutto e denuncia violazioni costituzionali nel comportamento di De Magistris, che intanto è stato trasferito a Napoli. Un altro filone vede l’assoluzione per tutti gli imputati. La Corte d’Appello di Catanzaro s’incaricò di versare i danni a tutti gli innocenti arrestati.

16) Inchiesta “Drug off” del 2006: 477 capi d’imputazione e 70 fermi per traffico di droga e traffico di auto rubate. Molti arrestati vengono subito liberati dal gip e dalla Cassazione. De Magistris in seguito viene trasferito a Napoli. In 18 scelgono il rito abbreviato: il gup decide per il non luogo a procedere. Un altro imputato muore. Tutti gli altri 51, otto anni dopo, sono assolti con formula piena. In tutto questo, le inchieste Why not, Poseidone e Toghe lucane non erano ancora incominciate.
Filippo Facci. Libero
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La senatrice del Pd, Angelica Saggese, con quella faccia un po' così, ha chiesto il «confino» per Luigi de Magistris, reo di voler continuare a fare il sindaco in strada vista l'impossibilità (causa decadenza) di continuare a fare il sindaco in Comune.

La Saggese, evidentemente incapace di dire cose sagge(se) , ha innescato con la sua richiesta un meccanismo tragicomico che ha consentito al capogruppo dell'Idv nel Consiglio comunale di Napoli, Antonio Luongo, di dire: «Luigi de Magistris come Antonio Gramsci». Poi, a rincarare la dose, è arrivato lo stesso Giggino: «Certa gente crede che viviamo in un regime, sono parole da fascismo. È una vergogna e penso che chi ha chiesto il mio confino debba vergognarsi».

Luigi De MagistrisLUIGI DE MAGISTRIS
Da parte sua, invece, de Magistris non si vergogna dei giudizi negativi espressi su di lui dai suoi capi ai tempi in cui era pm a Catanzaro. Roba risalente al 2008 e che da allora è risulta pubblicamente consultabile in rete su vari siti e blog. Ridargli una scorsa può essere utile. Soprattutto in riferimento agli stralci più significativi. «Il dato certo è che il dottor de Magistris è del tutto inadeguato, sul piano professionale e sul piano dell'equilibrio e sul piano dei diritti delle persone solo sospettate di reato, a svolgere le funzioni di pm...».

A scrivere parole così tranchant non è uno dei tantissimi indagati da de Magistris (poi risultati innocenti), bensì uno dei suoi capi incaricati di redigere la «pagella» che periodicamente i vertici degli uffici giudiziari inviano al Csm. Nel caso della «scheda» di de Magistris il giudizio risulta così negativo da configurare una totale bocciatura.
Luigi De MagistrisLUIGI DE MAGISTRIS

Un po' come se un allenatore di calcio considerasse un suo calciatore «incapace di correre, palleggiare e privo di qualsiasi visione di gioco» e, in conclusione, gli consigliasse di «appendere le scarpette al chiodo». Invece delle «scarpette», gli «allenatori» di de Magistris erano soliti sollecitarlo ad appendere al chiodo la toga.

Giggino, al contrario, non sentendosi un brocco ma il Maradona della magistratura, rispondeva controdenunciando i «mister», rei di non comprendere il suo talento. Macché «talento», il ragazzo è una schiappa - ipotizzava sei anni fa lo «staff tecnico» del Consiglio Giudiziario del tribunale di Catanzaro; e allora giù con giudizi di inusitata durezza: «Le sue tesi accusatorie sono cadute spesso per errori evitabili ed evidenziati dall'organo giudicante? Sono emersi rilievi negativi per l'anomalia di molti provvedimenti adottati. I procedimenti di rilevante impatto sociale hanno trovato clamorose smentite?
Luigi De MagistrisLUIGI DE MAGISTRIS

Nei provvedimenti si configurano violazioni manifeste di legge (addirittura diritti costituzionali) ovvero si radicano prassi senza alcun fondamento normativo, come in materia di intercettazioni... Le voci di capacità e preparazione presentano profili di evidente deficit, gravi vizi o lacune, tecniche di indagine discutibili, procedimenti fondati su ipotesi accusatorie che non hanno trovato conferma, attività carente dal punto di vista dell'approfondimento e della preparazione...».

Insomma, i «ct» togati calabresi avrebbero nutrito nei confronti di de Magistris la stessa opinione che forse il ct Antonio Conte ha nei riguardi di Balotelli: un giovane scapestrato che è meglio tenere lontano dalla Nazionale. Ma «Giggino 'o flop», al pari di «Supermario 'o pazz», non è uno che si fa zittire: «Ho sempre fatto il mio dovere in piena coscienza. Prima che toccassi certi nervi scoperti, ero considerato un magistrato bravissimo».
ANGELICA SAGGESEANGELICA SAGGESE

Peccato che a smentirlo ci sia una documentatissima rassegna stampa sui fallimenti «demagistrisiani » fin dal suo inizio carriera. Onestamente va però riconosciuto che qualche piccola soddisfazione l'ex pm se l'è tolta: ad esempio il famigerato «complotto» ai suoi danni da parte dei suoi capi calabresi ha avuto alcuni riscontri giudiziari nel corso dell'avvilente contesa che ha messo l'una contro l'altra le Procure di Catanzaro e Salerno.

Tra gli oggetti della disputa: il presunto «scippo» di importanti filoni di inchiesta ai danni di de Magistris. Poi il trasferimento per incompatibilità ambientale disposto dal Csm. Ma ormai Giggino ha deciso di buttarsi in politica, cingendosi la fronte con la bandana arancione. Napoli accoglie a braccia aperte. Ma, come recita il detto, «vedi Napoli e poi muori». Appunto.
Nino Materi. Il Giornale

sabato 19 gennaio 2013

Il raglio di Traraglio.


Sua Vanità, Marco Travaglio, è tornato sul tema a lui caro (economicamente) delle sue condanne per diffamazione. L’ha fatto a Servizio Pubblico, ovviamente, parlando da solo, ovviamente. L’ha fatto per via dei lettori e teleutenti che chiedevano chiarimenti: segno che non ne aveva mai dati. Delle condanne di Travaglio hanno appreso da Berlusconi.
Il presunto collega ha mostrato il suo casellario giudiziale - è il quarto anno di fila che lo fa - dove «c’è scritto nulla», quindi ha gongolato come se stringesse in mano un’indulgenza per l’altro mondo. Penalmente, è incensurato: esattamente come Silvio Berlusconi. Però Berlusconi è prescritto: anche Travaglio, visto che l’ultima sua condanna penale è andata in prescrizione il 4 gennaio 2011.
Nei sette minuti supplettivi da lui sequestrati a Servizio Pubblico, in sostanza, Travaglio ha spiegato di essere il migliore come sempre: migliore dei colleghi e direttori berlusconiani «condannati per diffamazione», loro sì, e migliore dei giudici che «non hanno capito» perché l’hanno condannato, migliore dell’intera stampa italiana che dopo Servizio Pubblico «la differenza tra penale e civile non l’hanno capita neanche loro». A meno che a questa differenza, più semplicemente, i giornali italiani non abbiano dato l’importanza che Travaglio le attribuisce. Il presunto collega, infatti, continua a parlare (da solo) come se le condanne civili non nascessero comunque da un illecito e da un cattivo giornalismo, e come se il primo a mischiare e pubblicare le condanne penali e civili dei colleghi, a suo tempo, non fosse stato lui. Ora che la sua stessa arma gli si ritorce contro, tuttavia, ecco fiorire distinguo su distinguo: e così giovedì sera ha cercato di separarsi dai «direttori berlusconiani, loro condannati più e più volte, loro sì diffamatori professionali», gente diversa da «noi, che non abbiamo nessuna condanna per diffamazione». Interessante. Ma una risposta a tono, purtroppo, implicherebbe l’elenco dei suoi amici e colleghi che sono incappati pure loro in condanne per diffamazione, magari con la specifica che anche il grande Indro Montanelli ne ha collezionate a bizzeffe, di condanne. E così pure tutti i grandi del giornalismo. Per rispondere a tono, cioè, dovremmo contribuire al gioco idiota e prediletto da Travaglio in tutti questi anni: sostituire la fedina penale alla carta d’identità, spiegare ai più beoti tra i suoi fans che un giornalista condannato per diffamazione sia tutta ‘sta cosa. Meglio di no. Meglio lasciare a Travaglio il suo certificato di purezza, glielo lasciamo noi e glielo lasciano tutti i suoi direttori regolarmente condannati per diffamazione.
1) Solo, ecco: si difenda un po’ meglio, almeno. Giovedì sera ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
2) Poi ha detto che una causa - persa col magistrato Filippo Verde - gli è andata male «perché il giudice ha capito» una cosa sbagliata. Colpa del giudice. Il quale, a dir il vero, nella sentenza ha scritto che Travaglio si era espresso «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata». Ma questo non c’era bisogno di dirlo a Servizio Pubblico.
3) Però ha detto, Travaglio: «Avevo scritto che Confalonieri doveva vergognarsi di accusare la sinistra di voler espropriare Mediaset come a Piazzale Loreto», e questa semplicemente è stata ritenuta dal giudice «una critica eccessiva». Tutto qui.  Agli amici di Servizio Pubblico non ha detto altre cose, però. Non ha detto che, secondo il giudice, lui - Travaglio - aveva dato per certe «ipotesi d’accusa non ancora accertate», che aveva riferito «illeciti non veritieri», che le notizie riferite da Travaglio «devono ritenersi non conformi al principio della verità e pertanto devono ritenersi sussistenti gli estremi del reato di diffamazione». Ops, scandalo, il giudice ha scritto «reato» nonostante fosse una causa civile. Un altro ignorante da segnare sul quadernino, Marco.
4) Poi Travaglio ha detto: «Ho scritto che Confalonieri era imputato assieme a Berlusconi nel processo Mediaset, ma non che era imputato per un altro reato. Il giudice ha capito che gli avessi detto che era imputato per lo stesso reato». Colpa del giudice.
5) Travaglio ha spiegato, poi, d’esser stato condannato per aver evocato «la metafora della muffa e del lombrico» riferita al presidente del Senato, Renato Schifani. Una metafora, ha detto il presunto collega, che era riferita eventualmente al successore di Schifani, non a Schifani. E però - ha detto agli amici di Servizio Pubblico - «il giudice o non ha capito o non ha apprezzato la battuta». Colpa del giudice. Non ha capito.
6) Travaglio ha poi riassunto nel seguente modo la condanna civile per causa della collega Susanna Petruni: «Una giornalista della Rai, berlusconiana di ferro, mi ha denunciato perché ho detto che è una berlusconiana di ferro. Dodicimila euro m’è costata». Eh no. Travaglio l’aveva definita «non obiettiva e asservita al potere della maggioranza di governo...», con episodi specifici di cronaca politica «narrati con evidente parzialità». Poteva dirlo.
7) Infine: Travaglio ha parlato di una condanna (penale, ma prescritta) elargita «perché avevo riassunto troppo un verbale di ottanta pagine in una pagina dell’Espresso... bastava che Previti mi mandasse una rettifica... ». Fine. E così non ha sentito il bisogno di riferire, ai gonzi di Servizio Pubblico, le parole utilizzate dal giudice: «Accostamento insinuante», «omissione evidente», «significato stravolto», «distorta rappresentazione del fatto... al precipuo scopo di insinuare sospetti sull’effettivo ruolo svolto da Previti». Questo in primo grado. In Appello: «È appena il caso di ribadire la portata diffamatoria!, «vi è prova del dolo da parte del Travaglio». Prova. Dolo. Travaglio.


filippo facci

venerdì 9 novembre 2012

Ci si accorge che Di Pietro è un....



Cari amici di Report, siete diventati matti per dimostrare che l'appartamento di Di Pietro a Roma, in via Merulana, è sempre stata la sua abitazione non la sede del suo partito. Siete andati a scovare un oscuro memoriale giudiziario per dimostrarlo: ma bastava molto meno. Per esempio questa lettera di Di Pietro pubblicata da Libero il 9 gennaio 2009: «A Roma sono proprietario dell’appartamento di via Merulana ove abito quando mi reco lì. L’ho comprato nel 2001». Nota: nel memoriale aveva scritto «nel 2000», in realtà l’acquisto è del 2002, come da visura catastale che pure pubblicammo l'11 settembre 2009. Altro esempio: potevate sbirciare, amici di Report, l'intervista a Monia Lustri (ex Idv) che Libero pubblicò il 17 giugno 2011: «Con Di Pietro», si leggeva, «andavo a cena prima di passare a casa sua, in via Merulana». Nota: l'intervista è stata querelata, ma siamo stati prosciolti meno di un mese fa. Infine: anche la famosa fattura - quella che dimostra che Di Pietro si ristrutturò l'appartamento a spese del partito - fu pubblicata da Libero l'11 settembre 2009, si parla di quella relativa a «Lavori per vostro ordine e conto svolti nella sede sociale di via Merulana a Roma, imbiancatura e stuccatura pareti, riparazione idraulica». La fattura è intestata a «Italia dei Valori, via Milano 14, Busto Arsizio, Varese». Insomma, potevate risparmiarvi un sacco di lavoro. Non fate i timidi, la prossima volta.
Filippo Facci.

mercoledì 4 luglio 2012

Il raglio del Travaglio


FACCI

Caro Travaglio ti scrivo

Travaglio non tifa Italia? Perché al posto del cuore ha uno schedario giudiziario.



Detto a boccia ferma: ammiro le opinioni impopolari e questo vale anche per Marco Travaglio, che ha confessato di aver tifato contro l’Italia agli Europei. È una posizione come un’altra: in passato l’hanno avuta anche molti leghisti. A loro si poteva muovere la stessa obiezione che si può muovere a chi, oggi, la mette giù dura e tira in ballo il nazionalismo: sono solo partite di calcio, calmatevi. Poi, però, leggi le motivazioni di Travaglio e ti si ghiaccia il sangue nelle vene. Sono solo partite di calcio, appunto: questione d’istinto, di divertita faziosità, di cuore. Ma Travaglio non ha un cuore: ha uno schedario giudiziario. Siccome c’è la vicenda del calcioscommesse, secondo lui bisognava tifare contro. Non c’è ancora nessuna sentenza, nessun deferimento: ma il sospetto basta. Non si sa se c’entrino giocatori azzurri: ma il sospetto basta. Travaglio vuole sapere «cos’è quel milione e mezzo versato da Buffon a un tabaccaio di Parma»: e, siccome non l’ha capito, s’incazza con Napolitano che abbraccia Buffon (che non è neppure indagato) e rimpiange Paolo Rossi che perlomeno «aveva pagato il conto della giustizia». Non si sa neanche se esista un conto da pagare, ora: ma nell’attesa deve pagarlo tutta la nazionale, come non accade in Germania e Inghilterra che pure hanno i loro guai col calcioscommesse. Il sospetto, secondo Travaglio, non è neppure l’anticamera della verità: è la verità.