Di Pietro, da almeno un decennio, si batte ufficialmente contro i soldi alla politica - anche quelli regolari - e poi ufficiosamente li incassa: e con quale determinazione. Quando battezzò la prima versione dell’Italia dei Valori, il 20 marzo 1998, il primo cavallo di battaglia lo montò al galoppo: in Senato si stava proprio discutendo una nuova legge sul famigerato finanziamento pubblico ai partiti, materia sua. Prese la parola, e fu drammatico. Disse: «Voglio protestare contro questa legge che è un’ipocrisia contro tutti, contro i cittadini, contro gli elettori e contro l’erario... Il contribuente ha già detto che non vuole aderire al finanziamento pubblico dei partiti... Ve ne siete infischiati... È tutto solo un’ipocrisia, e io non voterò contro questo provvedimento ipocrita». Ipocrita. Una settimana dopo Antonio Di Pietro incassò senza problemi 164 milioni e 348.215 lire per le spese elettorali sostenute nel Mugello, dove era stato eletto in quota Pds per disgraziata idea di Massimo D’Alema. Dopodiché fondò immediatamente il gruppo «Ulivo alleanza per il governo» così da avanzare formale richiesta di quello stesso finanziamento pubblico contro il quale si era svenato in Senato: altri 230 milioni che entravano in saccoccia mentre rilasciava interviste contro l’ipocrisia dei partiti. E questo è solo un esempio. Quello stesso anno, sempre nel 1998, precisamente il 26 maggio, la procura di Brescia gli notificò una richiesta di rinvio a giudizio per concorso in corruzione in atti giudiziari (vicenda Pacini Battaglia: seguirà un non luogo a procedere) e lui rilasciò un’intervista a Giuseppe D’Avanzo che ai tempi scriveva sul Corriere della sera: «Berlusconi ha cercato di avermi dalla sua parte. Quando ho visto da che parte stava lui, ho preferito scegliere la strada opposta... Sa quando l’ho capito? Quando sono intervenuto al Senato contro il finanziamento pubblico dei partiti». Legge che, per inciso, era stata votata da un governo di sinistra.
Un paio d’anni dopo Di Pietro rifondò da capo l’Italia di Valori: e la sua «società personale», come la definì Marco Pannella. fece uno statuto con soli tre soci (quasi come oggi) e la prima battaglia politica fu subito sui soldi: minacciò ingiunzioni al gruppo dei Democratici - dai quali si era distaccato, meglio: fu cacciato - e fece fuoco e fiamme per la parte di finanziamento pubblico che reputava spettargli: dopo un po’ di tira e molla trovarono un accordo. La seconda battaglia, il 25 ottobre, chiedeva formalmente ad Arturo Parisi la restituzione di 20 scrivanie, 16 armadi, 63 ripiani, 9 attaccapanni, 94 sedie, 7 poltrone, un divano, 21 telefoni, 2 computer e una fotocopiatrice. Di lì in poi a gestire l’intero finanziamento pubblico del partito saranno i coniugi Di Pietro più Silvana Mura: rimborsi per 250mila euro nel 2001, 2 milioni nel 2002, e poi 400mila euro ogni anno dal 2001 al 2005, più 10.726.000 euro nel 2006. Eccetera. Tutti soldi che, poveretto, Di Pietro è stato costretto a prendere.
F. Facci
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