LESSICO DI UN “OMO RIVER – ETIOPIA”.
Novembre 2010.
Testo e foto di Vittorio Vida
ADDIS ABEBA. ARBORE’. Di questo “Omo River-Etiopia” forse la cosa che dimenticherò prima è Addis Abeba. Un arrivo di notte, qualche ora in albergo, i preparativi per la partenza verso il Sud e poi, al ritorno, un pomeriggio con un museo etnografico un po’ deludentee un mercato zeppo di orribili souvenir; e poi via verso la fantastica Sana’a.
Le donne Arborè sono il primo incontro con le etnie dell’Etiopia. Le vediamo in uno spiazzo lungo la strada: con le loro gonne di pelli di capra, le collane di perline, i seni nudi, nessun sorriso e i loro approcci un po’ rabbiosetti, sono già “al lavoro” con altri turisti-fotografi. Ci fermiamo ma ripartiamo dopo pochi minuti, contenendo a fatica i loro assalti per le foto. Mi ritrovo a pensare: “Ah, i sorrisi spontanei e disinteressati e gli approcci scherzosi e simpatici delle genti della mia amata Asia!”
BALE. A fine viaggio, questi monti e la strada per raggiungerli, così ricca di panorami e colori diversi, sono stati una gran bella sorpresa; un vero “tiramisù” in un momento in cui l’entusiasmo latitava, perplessi o esasperati come eravamo dai “Bir! Bir!” delle tribù del sud. E una volta giunti lassù, dopo la camminata per vedere animali nel bosco del Bale National Park, pur con l’acqua che fatica a bollire, arriva ancora una volta la spaghettata di Nico; poi le chiacchiere, il fuoco (e il fumo!) del caminetto, il black-out della luce e la dormita nel camerone da dieci concludono una bella giornata. Al mattino seguente mi alzo presto e trovo ancora le braci sotto la cenere per riattizzare il fuoco. Metto sù una pentola d’acqua per il caffè e il tè e aspetto il risveglio di tutti. E poi …tutti aspettiamo, al calore degli ultimi pezzi di legno, la riparazione di una macchina che perde olio.
CHENCHA. Forse il mercato più rustico, naif e panoramico di tutto il viaggio: bello, nell’anfiteatro naturale di quella valletta; bello nella sua vastità; bello nella sua povertà dignitosa, che non chiede.
DIGNITA’. DEGRADO. DUBBI. DISCUSSIONI. Quanto abbiamo ragionato e discusso, noi del gruppo, sul poco bene e sul tanto male che noi turisti facciamo, in viaggi come questo, alle popolazioni che visitiamo, scrutiamo e fotografiamo avidamente. E loro avidamente, talvolta in modo sgraziato o aggressivo, ci ricambiano con i loro “Two Bir, two Bir!”: esclamazioni insistenti che sono sì una fonte di guadagno ma anche il segno di un degrado, di una perdita di dignità per popolazioni che da allevatori o guerrieri si trasformano prima in timidi e poi, a poco a poco, in arroganti commercianti di se stessi (o mendicanti?). “Ma le nostre modelle e le nostre attrici non fanno altrettanto?”, rimugino. E’ il progresso, bellezza! E poi: ora i riti e le cerimonie non si fanno più nelle date tradizionali bensì quando c’è un nutrito gruppo di turisti in arrivo. Noi diamo i soldi al capo del villaggio, nella speranza (o illusione?) che vengano equamente divisi tra gli abitanti. Sia come sia, non bastano: c’è la corsa di ognuno per accaparrarsi i propri Bir individuali; e così le donne si attaccano i neonati al seno; i bambini che appena camminano si caricano sulla schiena i fratellini più piccoli: hanno imparato che i più piccoli sono “merce” ricercata per le foto. E per lo stesso motivo c’è una gara a chi si mette addosso più ornamenti; molti sembrano esagerati: chissà se sono propri della loro tradizione oppure inventati o improvvisati per noi. L’importante per loro è farsi fare foto. E per noi, farle. Io per primo non riesco a fare a meno. Però: mai visto nei miei viaggi un commercio e un assalto a questi livelli.
EL SOD. Il lago sul fondo del cratere; l’estrazione di quel fango nero che è sale. Una facile discesa e una faticosa risalita nel caldo di una giornata novembrina appena mitigato da qualche nuvola; una maglietta di ricambio ci stava bene. Laggiù, un uomo va sott’acqua e riempie dei secchi. Altri riempiono sacchi e li caricano sugli asini (a proposito: quanti milioni di asini ci sono in Etiopia?). Dei nostri occhialini da piscina portati in regalo sembra non sappiano cosa farsene: chiedono Bir. Qui vivono i Borana. Li conosciamo meglio quando la nostra macchina disgraziatamente investe una capretta; scateniamo un putiferio e dobbiamo andare dal capo del villaggio per placare gli animi e stabilire il prezzo del rimborso che il nostro autista pagherà.
FIUME OMO. E’ il fiume che dà il nome al viaggio. Ci fermiamo per l’incontro con l’Omo su un pianoro con un chiosco di legno e paglia nel quale paghiamo per accedere al punto panoramico e per la seguente visita al villaggio; un tanto per l’auto e un tanto per persona. E mentre riposiamo all’ombra nel chiosco vediamo che parte dei nostri Bir finiscono in …birre con le quali diversi giovani continuano ad alzare il gomito; e non è ancora pomeriggio!
Il fiume in quel luogo forma un’ansa; scorre lentissimo, rossiccio, sullo sfondo del verde della savana; sembra volersene andare dal posto in cui ci troviamo; sembra dire: “Ho visto luoghi e soprattutto tempi migliori”. E ce ne andiamo anche noi, dopo il giro nel villaggio, dopo le foto ad un ragazzino nudo con un’improbabile decorazione integrale di fango; dopo quelle a un vecchio addormentato che viene poi svegliato dai ragazzi delle birre per dirgli che è stato fotografato nel sonno e che deve incassare.
A Omorate incontriamo l’Omo nuovamente. Là presto ci sarà un grande ponte; ne vediamo la struttura in ferro. Le piroghe di tronchi scavati andranno fuori servizio. O resteranno per dare un brivido ai turisti? Noi non ci risparmiamo quel brivido: constatiamo l’instabilità delle piroghe preferendole alle barche a motore, come i locali con le loro mercanzie. Sull’altra sponda, gente in attesa, da o per il Kenia; un villaggio (“Bir! Bir!”) e una “scuola”. Si tratta di una stanza polverosa di un vecchio magazzino, con una lavagna, sette o otto ragazzini seduti per terra e una timida, giovane insegnante che cerca di far imparare l’alfabeto inglese. Una mia collega; alla quale chiedo se posso insegnare loro una canzoncina per imparare l’alfabeto. Entusiasmo alle stelle! Cantiamo e ricantiamo e quando li lascio continuo a sentirli da lontano. E lasciamo Omorate, senza andare al Lago Turkana perché la polizia ci nega il permesso: da due giorni le tribù sul confine con il Kenia sono in guerra per un risveglio di antiche faide per problemi di confini e di furti di bestiame.
GOBE. Ma che spettacolo quel mercato! Mi ripaga di tutto l’amaro che ho masticato in molti villaggi e mercati del sud. Qui, riconciliato con l’Etiopia, giro per un paio d’ore tra la folla che si aggira tra i venditori seduti per terra. Gli abiti delle donne sono un tripudio di colori sgargianti. Mi guardano incuriosite; non abituate ai turisti, sorridono, accogliendo di buon grado i miei tentativi di comunicare. Sia cristiani che musulmani dimostrano una cordialità naif che diventa aperto divertimento quando mi metto a contrattare e a scherzare con un venditore di tessuti che oltre agli scialli mi vuol rifilare una moglie. E la prescelta ride e prova a scherzare accettando. Che bella gente gli Oroma a Gobe! Chissà perché (ma meno male!) non ci viene nessuno qui. Ma prima o poi…
HAMER. E’ con questa tribù che abbiamo il contatto più lungo: a Turmi. Per strada, nel piccolo ma pittoresco mercato, alla cerimonia del Salto del Toro. Belli, nei loro abbigliamenti (pelli, piume, perline, conchiglie, cinture e, immancabili, bastone e sgabellino-poggiatesta per gli uomini in …minigonna). Belli i loro visi e il colore della pelle delle donne: ricordano molto le Himba namibiane.
IPPOPOTAMI. Non riusciamo ad avvicinarli troppo. Si dice che abbiano paura di essere uccisi perché qualcuno ancora li caccia per mangiarli. Anche loro sono al “Mercato dei coccodrilli”; che non è affatto un mercato bensì il nome di una parte del lago Chamo dove anche loro si radunano. I coccodrilli, invece, non sono affatto timidi e impauriti; lo siamo un po’ noi, in barca a due metri da loro! Qui vengono anche raccolte le uova che alla “Crocodile Farm” verranno fatte schiudere; i piccoli rettili verranno allevati per quattro anni e a quel punto saranno pronti per diventare …borsette in qualche altra parte di mondo.
JINKA. La ricordo soltanto per essere il posto dove abbiamo mangiato peggio. Due cene, in due ristoranti diversi, con le stesse ore di attesa e le stesse striscioline di carne dure come il cuoio. In compenso sono stato io un tenero boccone prelibato per certi animaletti che dimoravano nel mio letto…
KONSO. Un villaggio di capanne tra muri di pietre scure. Di Waka (le statue lignee funerarie) ne vediamo solo due o tre, e molto rudimentali; quelle belle sono l’attrattiva principale del museo etnografico della capitale. In compenso siamo sommersi da bambini che vendono oggettini fatti con bastoncini di legno tenero. Compro per dieci Bir un televisorino con un rullo scorrevole di carta di quaderno con dei disegnini. Sembrano cose fatte a scuola. Chi non vende cerca foto insistentemente, con il risultato di prendersi qualche pedata da un adulto che ci fa da guida. Minacciati anche con un bastone scappano; uno però, poverino, non è abbastanza veloce e lo vediamo piangere a lungo per una bastonata. Mah… : ci risiamo: dubbi, tanti dubbi…
LUPO ETIOPICO. LAGHI. Proprio spettacolare, oltre le aspettative, l’incontro con il lupo, a 4300 m., sul bellissimo Sanetti Plateau! Da lontano lo scambiamo per una volpe, per il suo colore rossiccio e la coda folta. E’ una specie a rischio di estinzione. Lo avviciniamo. Corre, si ferma, ci guarda, dà spettacolo cacciando talpe giganti. Poi ne arriva un altro, che corre quasi a fianco della nostra auto. (http://www.youtube.com/watch?v=dbCrCtcJXX4). Incontri, questi, molto più belli ed emozionanti di quelli con le zebre, i nyala, i facoceri, i babbuini e perfino dei coccodrilli. E il paesaggio lassù è stupendo. Panorami ancora più belli di quelli visti vicino ai numerosi laghi, nella prima parte del viaggio.
MURSI. MAGO. MALARIA. MOSCA TSE’-TSE’. Nel Mago alle mosche non abbiamo nemmeno pensato. C’erano? E, ovunque, le poche zanzare che abbiamo trovato ci hanno lasciano abbastanza in pace. I Mursi, invece… Ci si va di mattina, prima possibile; gli autisti dicono che nel pomeriggio molti sono ubriachi e più aggressivi. Noi troviamo gli uomini seduti a terra, sotto l’ombra di un albero, a giocare ad anywoli (una tavoletta con diverse vaschette nelle quali bisogna collocare in un certo ordine una quantità di palline colorate); le donne invece, con i loro piattelli labiali, sono al …lavoro, abbastanza assatanate a spillare Bir per le foto. Qui addirittura non accettano banconote vecchie: le chiedono nuove. Non due Bir per foto ma due per ogni testa: una foto a una madre con il figlio in braccio fanno quattro Bir. Una ragazza riesce a infilare la mano in tasca ad uno di noi, a rubargli un po’ di soldi e a dileguarsi. Inutili le proteste; gli autisti cercano di farsi sentire col capo-villaggio minacciando di non portargli più turisti. La guardia armata che ci scorta si limita a borbottare un “No good people” e ci fa sapere che il giorno prima in una rissa tra Mursi ci sono stati due morti. Li lasciamo a prepararsi per l’assalto alle prossime macchine che numerose incontriamo uscendo dal Mago Park. Ci portiamo dietro i nostri soliti pensieri e commenti sul degrado che i nostri soldi provocano.
NYALA. Una specie di antilope abbastanza grande; è l’animale che abbiamo incontrato in maggior quantità, soprattutto nel Parco dei Monti Bale. E sui pacchetti di sigarette “Nyala”…
OROMO. Questo territorio è stato una sorpresa. Paesaggi splendidi: pianure con messi dorate, punteggiate da figurine colorate che tagliano, battono, setacciano; colline quasi toscane; montagne che risaliamo fino ai 3400m. del “rifugio” di Dinsho. Qui per strada tutti, uomini, donne, bambini, si muovono a cavallo. Incantevoli quelle …cow-girls che, sorridendoci e salutando, spronano i loro cavalli per mostrarci la loro abilità e per spostare dalla strada la mandria!
POZZI. PAESAGGI. Ai “pozzi cantanti” di El Sod-Dumblok, nel punto più a sud del nostro itinerario, si ripropone il dubbio. I pozzi sono un sistema di abbeveratoi decisamente laborioso che consente alle mandrie di dissetarsi. Nella radura in cui ci rechiamo si apre uno scivolo, come quelli che portano ai nostri garage sotterranei, ma molto più lungo; scende a cielo aperto di circa venti metri. Alla fine c’è un pozzo dal quale sentiamo venire una nenia ritmata. E’ il ritmo che si danno tre giovani in costume da bagno per passarsi dal fondo secchi d’acqua fangosa che versano in un lungo abbeveratoio. Dallo scivolo scendono una ventina di mucche e vanno a bere. Spettacolare, sì. Il fatto è che, quando risaliamo vediamo poco lontano, tra le rade chiome delle acacie, un grande serbatoio d’acqua. E dunque? Quel pozzo, quelle mucche-comparsa, quel mandriano, quelle fatiche sono a beneficio dei turisti. Comunque, pensiamo, i Borana, magari per i soldi che paghiamo, la tradizione la mantengono. E noi ripartiamo in un paesaggio di terra arida rosso fuoco, uno tra i più belli e africani che si possono vedere in questa parte di viaggio, nel profondo sud dell’Etiopia. http://www.youtube.com/watch?v=AFbFt60AunU
QUANDO uscirà dalla povertà questo paese? Quando Dio vorrà, per i Cristiani (60%); Inch’ Allah, per i Musulmani (35%); pare che la convivenza tra i due grandi gruppi religiosi sia senza problemi in Etiopia. E al mercato di Gobe ho proprio avuto quella sensazione.
L’Etiopia è tra i primi dieci paesi più poveri del mondo. Sul nostro attuale modo di aiutarli si può discutere a lungo, e lo abbiamo fatto, a commento di quelle tante mani e voci che chiedevano, nel corso delle nostre visite. Ma quando succedeva di fermarsi per qualche necessità lungo la strada, vicino a capanne dove i turisti non si fermano mai, là le persone si avvicinavano timide, spinte solo dalla curiosità; guardavano soltanto. E’ lì, in quei posti isolati, che viene il desiderio di dare qualcosa. Ma non è così che si dà inizio a quella brutta spirale? Ora non sanno chiedere l’elemosina; se dò, impareranno a chiedere. Perderanno la dignità che, anche sotto a quei vecchi indumenti, c’è in loro. Ho ancora negli occhi, in un villaggio, quel bambino di tre o quattro anni vestito soltanto di una mini-maglietta con un gran “D e G” sul petto che cercava di farsi largo in una torma di bambini più grandi e che imparava a dire “Two Bir! Two Bir!” E io a pensare, con Chatwin: “Che ci faccio qui?”; a pensare che la povertà rivestita di pelli, conchiglie, perline colorate ci piace: siamo qui per quelle cose. Ma la povertà vestita di vecchie magliette, di braghette strappate e svestita di dignità non può piacere. E non piace. E ci fa male dentro. E distogliamo gli occhi da quegli occhi. Ci guarderanno mai alla pari? Quando?
RINGRAZIAMENTI, ai compagni di viaggio; un gruppo eterogeneo che ha viaggiato bene. Ci siamo accettati, talvolta “digeriti”, nello spirito giusto di chi viaggia con Avventure.
SOLDI. In ogni villaggio io continuo la mia battaglia per far capire che abbiamo pagato al capo-villaggio e che i singoli non dovrebbero chiedere altro. Non lo faccio per avarizia, per quei pochi soldi: lo faccio convinto che se tutti facessimo così forse si eviterebbe quel commercio di se stessi, quella gara a mettersi addosso più ornamenti o più neonati. Finisce spesso che mi faccio coprire di improperi quando io non do niente, mentre gli altri distribuiscono Bir a piene mani, spesso non rendendosi nemmeno conto di quanto stanno dando, inflazionando tutto. E’ una battaglia persa. Ma quando vedo i bambini che si azzuffano di brutto per avere i regalini che qualcuno di noi distribuisce e gli uomini che li cacciano a bastonate mi rafforzo nella convinzione di non dar niente. Mi costa fatica ed amarezza questa mia parte di Don Chisciotte contro i mulini …a soldi, tuttavia mi conforta il pensiero delle scuole che in una povera regione dell’India sono state costruite e vengono mantenute con le mie contribuzioni. Educazione e istruzione sono la strada migliore per fare del bene.
TURMI. A Turmi tre notti; chi in tenda, chi in bungalow. E’ la base di partenza per i tre incontri con l’Omo: a Korcha, a Murele e a Omorate. Le etnie qui sono Banna e Hamer. Al piccolo ma bel mercato compro il famoso sgabellino-poggiatesta per 35 Bir; giro, guardo, faccio le mie foto (spesso di nascosto) in modo abbastanza tranquillo. E nel pomeriggio si va all’affollatissima cerimonia del Salto del Toro. Seguiamo i lunghi preparativi, le danze preliminari delle donne. Molte hanno la schiena piena di cicatrici ancora sanguinanti per le frustate che, dicono, “vogliono” farsi dare dai mariti per dimostrare che li amano (o che sono sottomesse?). E dopo un paio d’ore il salto di alcuni torelli da parte di un giovane nudo che con quel salto dimostrerà di esser pronto per la vita da uomo e da marito. (http://www.youtube.com/watch?v=LW57qfZVLNk)
U. U come… Urca, che buon caffè quello etiopico! In qualche ristorante lo preparano anche con il rito tradizionale, simile alla cerimonia del tè in Giappone.
Ma anche bevuto alla buona il Sidamo dimostra di essere un caffè di qualità. E prima di lasciare l’Etiopia trasformo i Bir rimasti in pacchetti di caffè da regalare a parenti e amici.
VILLAGGI. Quanti ne abbiamo visti! Il tratto comune a tutti è la povertà, con poche apparenti eccezioni, tipo Dorzè, dove si sono organizzati nell’accogliere i turisti, mostrando loro le attività tradizionali e allestendo uno spettacolino di canti e danze. Quelli del sud sono i più poveri: semplici agglomerati di capanne fatte di bastoni di legno, talvolta con l’aggiunta di qualche pezzo di lamiera. E tanti recinti: al sud fatti di bastoni, e più a nord di belle piante grasse.
WEYTO. Anche qui un bel mercato, etnia Tsamay; ma non ci fermiamo molto. Le donne hanno le solite zucche come recipienti ma anche una mezza zucca come copricapo, forse a doppio uso!
X, come …X-crossing. Segnali stradali ce ne sono ben pochi fuori dalle città, e ben pochi sono gli incroci, in quelle lunghe e dritte strade. Se dovessero segnalare l’attraversamento-animali basterebbe mettere un cartello …all’inizio e alla fine dell’Etiopia, valido per tutto il paese e per tutti i cento milioni di capi di bestiame (più i cinque milioni di asini!). Mandrie, greggi e asini costringono gli autisti a rallentare, ma mica tanto. Mentre quando sono isolati questi animali sembra abbiano imparato che è meglio stare immobili nel mezzo della strada e lasciarsi sfiorare dai bolidi su ruote. Ma se una capretta non ha ancora imparato…
YEMEN. Ma cosa c’entra lo Yemen con l’Omo River Etiopia? Se avrete la fortuna di viaggiare con la Yemenia, al ritorno vi farete una giornata e una notte a Sana’a. Felice di rivedere dopo otto anni quella città da fiaba, giro con gli altri per le stradine, tra i palazzi, i negozietti e le bancarelle.. Ci godiamo quella splendida città sia con la luce del sole sia con quella incantata della luna e delle finestrelle multicolori illuminate. La gente qui è sempre stata cordiale; ora ancor più. Salutano con un “Welcome!” che lascia capire quanto siano stufi di quell’isolamento che il terrorismo ha imposto al loro paese. Non vedono l’ora che i turisti possano ritornare. Ma su qualche muro vediamo dei fogli con delle facce barbute e vicine a dei kalaschnikov: terroristi ricercati. “Bad people” è il commento di chi ci vede guardare; ”No good”. Per quanto ancora?
ZEBRE. ZOMBIE. Due ne abbiamo viste, e quella camminata di tre ore sotto un sole spietato, più altre due di barca per l’attraversamento del Lago Chamo, non valgono la pena; c’è ben altro che le zebre da vedere in Etiopia.
Già: “Tanto altro da vedere”, penso, mentre come degli zombie ci salutiamo al ritorno a Roma dopo aver saltato una notte di sonno. “Sì: tante cose nell’Omo River-Etiopia”, penso ancora mentre come uno zombie raggiungo casa in pullman da Venezia. Ma sbrigarsi ad andare: laggiù l’Omo continuerà a scorrere lento, ma le cose e le persone stanno cambiando in fretta.
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