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Lo sfogo di Rosi Mauro scagionata dopo due anni "La gogna non si cancella"
L'ex senatrice leghista: "Non auguro al mio peggior nemico ciò che ho passato. Ringrazio i pm per il loro lavoro immane"
L'ex senatrice leghista: "Non auguro al mio peggior nemico ciò che ho passato. Ringrazio i pm per il loro lavoro immane"
Milano - Era la «strega nera». Donna e meridionale dentro una Lega di maschi, fu l'unica a venire espulsa.
Mentre il Trota restava al suo posto, con le sue lauree albanesi a scrocco, Rosi Mauro veniva cacciata con ignominia.
«Non auguro al mio peggior nemico ciò che ho passato in questi anni. Oggi sono felice. Ma due anni e due mesi di gogna non si cancellano, non si cancellano le incursioni e le falsità sulla mia vita privata. Devo ringraziare i pubblici ministeri che hanno fatto un lavoro immane, e questo lavoro li ha portati a convincersi della mia innocenza. Ma questa innocenza è stata calpestata senza ritegno sui giornali, in televisione, su internet».
Non è una intervista: per questa, spiegano la Mauro e il suo avvocato, ci sarà tempo e spazio dopo che la richiesta di archiviazione firmata l'altro ieri dalla Procura sarà passata al vaglio del giudice preliminare. Ma per la Rosi è difficile non lasciarsi andare a uno sfogo. Il 12 aprile 2012 la sindacalista padana, già astro fisso del cerchio magico bossiano, venne giustiziata senza processo dal triumvirato Maroni-Calderoli-Giorgetti, chiamati a salvare le sorti del Carroccio sotto la tempesta dell'inchiesta sui fondi neri e sulle spese pazze di «The Family», il clan Bossi. La cacciarono dal partito e le ordinarono di dimettersi dalla vicepresidenza del Senato. «Io per tutta la mia vita avevo obbedito. Ma di fronte a quell'ingiustizia mi ribellai, perché sapevo di non avere fatto niente. Dissi che mi stavano facendo una schifezza. E risposi che non mi sarei dimessa».
Le contestavano le accuse lanciate contro di lei da Francesco Belsito, il cassiere della Lega. Un assegno da 6.600 euro intestato «Rosi». Un altro assegno da sedicimila euro. E poi l'accusa più devastante, quella che portò i giornali a frugare fin dentro la sua camera da letto: 77mila euro per comprare in Albania la laurea a Pier Moscagiuro, l'ex poliziotto divenuto il suo compagno. Lei, quando è stata interrogata, ha detto che gli unici soldi visti davvero sono stati i 16mila euro: il valore della sua auto, venduta alla Lega «a me non serviva più, perché mi portava sempre in giro l'auto del Senato». Degli altri soldi, dice di non sapere assolutamente niente. Ora la stessa Procura le riconosce che non c'è uno straccio di prova. E che «non è irragionevole ritenere che Belsito abbia utilizzato la Mauro e Moscagiuro come pretesti per prelevare denaro per se stesso».
A Porta a Porta, mentre il suo mondo le crollava addosso, non resse e scoppiò a piangere. Intanto partiva il linciaggio sui siti dei leghisti duri e puri, che in qualche modo dovevano nascondere e spiegare a se stessi le barbonate del padre fondatore, le scoperte strabilianti sulle spese di Umberto Bossi e dei suoi eredi: i vestiti, la benzina, il dentista, gli alimenti per le ex mogli, il veterinario per il cane. Ammettere che il Senatùr si era ridotto a fare la cresta sui rimborsi era troppo difficile. Difficile ammettere che lo stato maggiore era colluso: «Tutti - ha spiegato la Mauro ai pm - sapevamo che venivano spesi dei soldi per gli studi di Renzo e Riccardo Bossi, ma si parlava di studi effettivi al Cepu, si parlava di Londra». Ma alla base che chiedeva pubblici esorcismi, qualche testa andava data in pasto. Toccò a lei. «Eppure sarebbe bastato poco per capire che la storia non stava in piedi, chi ha mai pagato 77mila euro per una laurea in Albania? Ne bastano due o tremila. E poi Moscagiuro non è neanche diplomato».
Oggi, dice Rosi Mauro, «non appartengo più a quel mondo». Lo dice senza apparente malinconia, anche se dietro ci sono vent'anni di vita, l'impiegata venuta dalla Puglia che incrocia il verbo visionario di Bossi negli anni in cui alle strologanti conferenze stampa dell'odontotecnico di Cassano Magnago si presentavano pochi e diffidenti cronisti, e il nemico non erano i negri ma i terroni come lei; eppure qualcosa scattò. Di quei tempi gloriosi di attacchinaggi e pizzerie, oggi a Rosangela detta Rosi restano le due paginette scarse di una richiesta di archiviazione.
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