Sono passati più di dieci anni, e la leggenda nera dalemiana - se così possiamo chiamarla - non fa che crescere e conquistare la fantasia dell’opinione pubblica. Percepito di volta in volta (e qualche volta simultaneamente) come il più abile costruttore di strategie e il più pervicace distruttore di realtà, D’Alema è stato accusato nel corso degli anni di aver fatto fuori prima Natta, poi Occhetto e infine Prodi; di aver dapprima inventato e poco dopo affossato l’Ulivo; di aver organizzato il «ribaltone» contro Berlusconi nel ’94 e di averlo salvato con la Bicamerale nel ’96; di esser stato il più fiero e settario degli antisocialisti, e di essere oggi un craxiano senza vergogna; di aver confidato all’ambasciatore americano opinioni sulla magistratura degne del più sfegatato garantista, e di aver architettato con la candidatura al Mugello quel capolavoro di giustizialismo politico che è la discesa in campo di Di Pietro. Se non ci fosse D’Alema, ci annoieremmo a morte.
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