DiStImIcAmEnTe

QUANDO FU NON RICORDO,
MA VENNI PRESO UN GIORNO
DAL DESIDERIO D'UNA VITA VAGABONDA,
DANDOMI AL DESTINO D'UNA NUVOLA
CHE NAVIGA NEL VENTO,
SOLITARIA.
(Basho)
...ma ora...
STO DIVENTANDO VECCHIO.
UN SEGNO INEQUIVOCABILE E' CHE
LE NOVITA' NON MI APPAIONO INTERESSANTI
NE' SORPRENDENTI.
SON POCO PIU' CHE TIMIDE VARIAZIONI
DI QUEL CHE E' GIA' STATO.
(Borges)
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venerdì 27 novembre 2020
DAGOSPIA, lettera 16: Maradona e Mario Giordano
Lettera 16
Dagosapiens, non so se anche tu sia "malato" di calcio, ma ti scrive uno che è orgoglioso di non aver mai sofferto di quella "malattia"; uno che poi, da qualche decennio, da quando sui campi non ci sono più dei gentiluomini, considera il calcio come lo sport peggiore per gli esempi che dà ai giovani. Uno sport che fa perdere la testa anche a persone di una certa cultura, come si è visto nei media in questa maratona-Maradona che speriamo sia finita. Sì, si sono levate voci che hanno stigmatizzato questi eccessi: ma cosa possono? Quelle non le ascoltano, non le leggono, non le seguiranno certamente gli invasati che hanno perso il loro dio-maradona. Quelli non guariranno: adoreranno gli altri dei dell'Olimpo calcistico, i quali continueranno con le loro modi di fare, di vivere, con i loro miliardi ostentati, a diffondere quel virus. Non c'è vaccino.
Un'ultima cosa, Dago: leggo nel tuo sito che contro il cattivo esempio-Maradona per i giovani si è levata anche la voce, o meglio, la penna di Mario Giordano: condivisibile. Approfitto però, in merito agli esempi da dare ai giovani, per dirgli che quando mi capita di vederlo nel Blob di Rai 3, anche lui fa cadere le braccia: quella sua televisione scomposta, urlata, clownesca se non addirittura becera, va considerata esemplare?
Vittorio Diamociunaregolata ExInFeltrito
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mercoledì 14 agosto 2013
Gli italiani non hanno fame
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IL COLOSSO DI ORMELLE
«Assumo ma troviamo solo stranieri
Perché? Gli italiani non hanno fame»
Pagotto (Arredo Plast): i nostri ragazzi non accettano i tre turni. E’ il primo fornitore europeo di Ikea per la plastica: «Ho investito bene, ma oggi non lo rifarei qui in Italia»
TREVISO — «Uno che viene al colloquio di lavoro accompagnato dalla mamma, l’altro che, al telefono, ti risponde che è interessato ma non prima di tre mesi perché sta studiando per la patente. Ma si può?». Scuote la testa Giovanni Pagotto, fondatore e presidente di Arredo Plast Spa, holding di Ormelle da 230 milioni di fatturato, maggior fornitore di prodotti in plastica per l’Ikea. L’azienda cresce, lui assume ma inserire in organico personale italiano è una parola. Il 90% dei dipendenti del comparto produzione è straniero, i capiturno sono in larga misura extracomunitari. Chi sta alle macchine è impegnato su tre turni sette giorni su sette, e questo fa già storcere il naso ai locali. Quando invece si tratta di trovare un tecnico il problema diventa un altro. «Pochi giorni fa avevamo contattato un neolaureato in ingegneria aerospaziale, ci ha detto che sarebbe venuto se lo avessimo mandato all’estero. Gli ho risposto che volevo rifletterci due giorni ma quando l’ho richiamato per annunciargli che lo avrei inviato alla nostra sede canadese aveva già trovato un altro posto in Germania. Questi in Italia proprio non ci vogliono stare».
Eppure ci sono ingegneri che da lei hanno fatto carriera. La fabbrica di Motta che lavora solo per Ikea è diretta da uno di questi. «Si, però quando il ragazzo è arrivato lo abbiamo messo a "tirare bulloni", mica in ufficio. Ha fatto strada un po’ alla volta ».
E gli altri? Gli ambienti qui sono puliti, la paga è quella del contratto e i superminimi non mancano. Cosa c’è che non va? «C’è che gli italiani non hanno fame. A 16 anni andavo in bicicletta da Ormelle a Conegliano per lavorare alla Zanussi, a 27 ero responsabile di mille operai. Prova a dirgli a questi qua che una volta al mese devono lavorare il sabato o la domenica. Capisco che fare i turni è un sacrificio ma le macchine qui non possono fermarsi».
Gli stranieri sono più disponibili, insomma? «Mi tocca dire di si. Qui dentro ce n’è da ogni parte del mondo, uomini e donne».
Comunque sia, il suo gruppo cresce sempre da anni. Uno stabilimento dopo l’altro, lei ha messo su un impero. Ikea pesa solo per un quinto o poco più del suo business ma è un’ottima credenziale. Segno che non è vero che in Italia non si possa fare industria.«Nel 2000 ho venduto la Glass Idromassaggio di Oderzo ad un gruppo americano. Mi hanno dato una cifra notevole e l’ho investita tutta in questi capannoni. Il fatto è che dieci anni più tardi gli stessi capannoni li avrei messi all’estero».
Perché? «Devo fare l’elenco? Burocrazia, tasse, costo del lavoro e dell’energia. Ecco perché per rimanere competitivo, e per certi prodotti lo siamo più dei cinesi, le mie macchine estremamente automatizzate non devono fermarsi mai. A tre giorni da un ordine Ikea vuole i prodotti in ogni suo negozio d’Europa».
A parte Ikea, i vostri clienti chi sono? «Le vendite sono per l’85% all’estero. Negli Usa la nostra controllata canadese rifornisce Walmart, la più grande catena di vendita al dettaglio del mondo. Ma i nostri articoli in plastica si trovano un po’ dappertutto nella grande distribuzione».
I conti come sono, fatturato a parte? «L’Ebitda è vicino al 14,5%, quando c’è in giro qualcosa di interessante da rilevare cerchiamo di farlo, e finora sempre con mezzi nostri».
E qualcuno che vi chieda di diventare socio c’è? «Più di qualcuno, ma i fondi d’investimento ragionano in un modo che mi piace poco. Fino a poche settimane fa stavamo dialogando con uno americano, poi le trattative si sono fermate. All’inizio volevano una quota di minoranza, poi hanno cominciato a parlare di 51% e abbiamo chiuso il discorso ».
Contare su liquidità propria non può continuare all'infinito se volete allargarvi. Mai pensato alla borsa? «Si, ma non è ancora il momento. Adesso il valore del titolo non rispecchia mai quello reale. Ci vorranno almeno due o tre anni prima che una quotazione torni ad essere una scelta interessante».
Gianni Favero
14 agosto 2013
14 agosto 2013
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