DiStImIcAmEnTe





QUANDO FU NON RICORDO,
MA VENNI PRESO UN GIORNO
DAL DESIDERIO D'UNA VITA VAGABONDA,
DANDOMI AL DESTINO D'UNA NUVOLA
CHE NAVIGA NEL VENTO,
SOLITARIA.
(Basho)

...ma ora...

STO DIVENTANDO VECCHIO.
UN SEGNO INEQUIVOCABILE E' CHE
LE NOVITA' NON MI APPAIONO INTERESSANTI
NE' SORPRENDENTI.
SON POCO PIU' CHE TIMIDE VARIAZIONI
DI QUEL CHE E' GIA' STATO.
(Borges)

lunedì 22 febbraio 2016

Un Eco diverso

1. I GIORNALONI OFFRONO COLATE DI RETORICA SU ECO E “LIBERO” INTONA IL CONTROCANTO
2. “SE PARLIAMO DELL’INTELLETTUALE ITALIANO PIU’ NOTO NEL MONDO C’È L’OBBLIGO DELLA VERITÀ INCLUSA QUELLA SGRADEVOLE. ECO ERA UN ABITANTE SPOCCHIOSO DEI QUARTIERI ALTI DELLA MORALITÀ: TEORIZZAVA L’INFERIORITÀ CULTURALE DI CHI VOTAVA CENTRODESTRA”
3. “PROVAVA DISPREZZO ANTROPOLOGICO PER MILIONI DI ITALIANI ED ERA ACCECATO IDEOLOGICAMENTE. L’8 MAGGIO DEL 2001 FIRMÒ UN ARTICOLO SU ‘REPUBBLICA’ IN CUI FACEVA A PEZZI GLI ELETTORI DEL POLO DELLE LIBERTÀ DEFINENDOLI ‘ELETTORI DI OFF SHORE’
4. “DI ROMANZI BRUTTI E PRETENZIOSI NE HA SCRITTI. DAL 'NOME DELLA ROSA’ E’ UNA TUTTA UNA DISCESA. L’INDIGESTO ‘PENDOLO DI FOUCAULT’, IL SUPERFICIALE ‘BAUDOLINO’, L’INGIUDICABILE ‘LA MISTERIOSA FIAMMA DELLE REGINA LOANA’, LA BIZZA SENILE ‘NUMERO ZERO’”



UMBERTO ECO
1 - IL MANICHEO CHE TEORIZZAVA L' INFERIORITÀ ETICA DELLA DESTRA
Fausto Carioti per “Libero quotidiano”

De mortuis nihil nisi bonum. Ma se il defunto è l' intellettuale italiano più noto nel mondo c'è anche l' obbligo della verità. Tutta, inclusa quella sgradevole. L' autore del Nome della rosa è stato tante cose. Politicamente parlando è stato l' intellettuale più autorevole tra coloro che hanno diviso l' Italia in due, per venti lunghissimi anni.

Da una parte chi studia, legge (preferibilmente Repubblica e Micromega) e ha una coscienza: l' Italia dei giusti. Dall' altra, l' Italia della barbarie: delinquenti, favoreggiatori di delinquenti, subumani della cultura. In parole povere: tutti coloro che hanno votato per Silvio Berlusconi. Una dicotomia che ha fatto di Umberto Eco il grande teorico della inferiorità etico-culturale degli elettori di centrodestra.

 Il difetto di Eco non era la sua antipatia viscerale per il Cavaliere, che nel 2006 lo spinse ad annunciare la fuga dall' Italia (figuriamoci) se avesse vinto Berlusconi e che è appartenuta e appartiene a tanti, anche a destra e che spocchiosi non sono (non sempre, almeno). Era invece il disprezzo antropologico dell' intellettuale illuminato per milioni di italiani.

Quel «razzismo etico» che gli è costato un giudizio durissimo da un intellettuale di sinistra senza paraocchi come Luca Ricolfi. Il quale, ricordando come si comportò nella seconda metà degli anni Novanta la categoria cui lui stesso appartiene, scrisse sulla Stampa: «Fu proprio in quell' epoca che la sinistra, tramortita e incredula di fronte a un elettorato che aveva osato preferirle Berlusconi, iniziò a rivedere drasticamente il proprio giudizio sugli italiani.

Visto che non la votavano, e le preferivano quel cialtrone di Berlusconi, gli italiani dovevano essere un popolo ben arretrato, individualista, amorale e privo di senso civico. Una teoria, questa, che raggiunse il suo apice, al limite del ridicolo, con l' appello elettorale di Umberto Eco nel 2001, in cui gli italiani che avessero osato votare Berlusconi venivano descritti con un disprezzo ed un semplicismo che, in una persona colta, si spiegano solo con l' accecamento ideologico».

Accecamento ideologico: per un intellettuale, cioè per colui la cui identità e professione sono le idee, l' accusa peggiore. È anche quella che dipinge meglio l' Eco degli scritti politici (chiamiamole pure invettive). Dall' appello firmato nel 1971 contro il «commissario torturatore» Luigi Calabresi - padre del direttore di quella Repubblica che ieri commemorava Eco - agli appelli, alle interviste, a certe "Bustine di Minerva" vergate per l' ultima pagina dell' Espresso.

L' apice, ma anche la teorizzazione che ha dato dignità a tanti deliri del progressismo italiano (vale la pena di ripeterlo: intrinsecamente razzisti, perché basati sulla superiorità antropologica dell' homo sinistriensis), è proprio l' appello che Repubblica mise in pagina l' 8 maggio del 2001. Tonitruante sin dal titolo: «Non possiamo astenerci dal referendum morale».

Lì Eco divideva «l' elettorato potenziale del Polo» in due. C'era l' Elettorato Motivato, del quale facevano parte «il leghista delirante», «l' ex fascista» e quelli che, «avendo avuto contenziosi con la magistratura, vedono nel Polo un' alleanza che porrà freno all' indipendenza dei pubblici ministeri».

E poi c' era l' Elettorato Affascinato, composto da chi legge «pochi quotidiani e pochissimi libri», persone che «salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina». «Che senso ha parlare a questi elettori di off shore», inveiva Eco, «quando al massimo su quelle spiagge esotiche desiderano poter fare una settimana di vacanza con volo charter?».

Criminali e gente in malafede, dunque, assieme a ignoranti lobotomizzati dalle televisioni e da un sogno di benessere a buon mercato. Spiriti meschini, paria del suffragio universale, personaggi che nella democrazia illuminista di Eco non avevano diritto alla cittadinanza e probabilmente nemmeno allo status di rifugiato.

In quella pagina Eco scrisse anche che, se avesse vinto il Polo, «tutti i giornali, il Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, il Messaggero, il Giornale, e via via dall' Unità al Manifesto, compresi i settimanali e i mensili, dall' Espresso a Novella 2000, sino alla rivista online Golem», sarebbero finiti nelle mani dello «stesso proprietario», ovviamente Berlusconi. Il quale, come noto, avrebbe vinto nel 2001 e nel 2008 per trovarseli tutti contro: la previsione dello scienziato sociale Eco fu falsificata, ma lo status dell' autore non ne risentì.

Non avrebbe mai cambiato idea. Ripubblicò il testo del 2001 in una raccolta del 2006 (anno in cui ovviamente scrisse anche l' ennesimo appello in occasione dell' ennesimo «appuntamento drammatico» elettorale) e in quell' occasione difese gli insulti che cinque anni prima aveva distribuito su metà degli italiani, paragonando se stesso agli intellettuali che resistettero al fascismo: «Come se ai loro tempi si fosse imputato (si parva licet componere magnis) ai Rosselli, ai Gobetti, ai Salvemini, ai Gramsci, per non dire dei Matteotti, di non essere abbastanza comprensivi e rispettosi nei confronti del loro avversario».

Il fatto che «oggi Umberto Eco a Ventotene ci va - se lo vuole - in vacanza», come ha scritto lo storico Giovanni Orsina, non pareva scuotere le sue certezze. Nel dibattito elettorale, argomentava Eco in quel gennaio di dieci anni fa, «le critiche all' avversario devono essere severe, spietate, per potere convincere almeno l' incerto». Ma allora è questo il compito dell' intellettuale?

Insultare, drammatizzare, umiliare il prossimo affinché voti come lui gli dice di fare? Abitante spocchioso dei quartieri alti della Moralità, quando di mezzo c' era la politica Eco non aveva nulla della leggerezza e dell' umanità di un Edmondo Berselli, per restare nella sinistra colta di matrice bolognese.

Una vita di successi, lo status di grande maestro universalmente riconosciuto, ma in fondo Eco è rimasto sempre lo stesso di quel saggio che scrisse a 29 anni, in cui Mike Bongiorno era definito «esempio vivente e trionfante del valore della mediocrità», la rappresentazione di «un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello». Era già tutto lì, nel 1961. Disprezzo per l' italiano medio e accecamento ideologico inclusi.


2 - DOPO «IL NOME DELLA ROSA» È STATA UNA DISCESA LIBERA
Davide Brullo per “Libero quotidiano”


Lo ha fatto secco. Ben prima di andarsene all' altro mondo, Eco si è tolto la soddisfazione di accoppare l' amico semiologo Paolo Fabbri. Una specie di vendetta accademica... «Ha ragione. Nel Nome della rosa Umberto mi raffigura sotto le mentite spoglie di Paolo da Rimini, doctor agraphicus...». Mi tocca correggerla: «"L' abate Paolo da Rimini, un uomo curioso di cui si raccontano strane storie", scrive, "conosceva a memoria tutti i libri della biblioteca, ma aveva una strana infermità, non riusciva a scrivere, lo chiamavano Abbas agraphicus"». «Ciò non toglie che mi fa uccidere da un gruppo di briganti».

Fabbri, che ha conosciuto Umberto negli anni '60 a Parigi, «ai corsi di Roland Barthes e di Lucien Goldmann», poi gli ha fatto da assistente, all' Università di Firenze, nel 2010, introducendo la Fenomenologia di Umberto Eco, ha ideato una specifica filosofia sul successo letterario di Eco. Si chiama «teoria del QuiProQuo», ed è, più volgarmente, una variante dotta del «Fattore C». «Tutte le volte che gli è capitato qualcosa di brutto, si risolveva in gloria. Un esempio: l' Università di Torino gli preferisce Gianni Vattimo, stroncando la pianificata attività accademica di Eco. Lui va in tv. E comincia il suo enorme successo».

Se la mettiamo in letteratura, è lo stesso. «In quel caso s' innesca un altra questione. Fin da giovane Eco entra in Bompiani, diventandone il direttore letterario. Questo gli ha permesso un controllo pressoché assoluto del media-libro. E lo ha aiutato a tradurre la sua roba nel mondo intero».

Come si sa, Eco ha il merito di aver celebrato le nozze tra Tommaso d' Aquino e Mike Bongiorno. «Aveva un talento stupefacente per la scrittura, va detto; un talento che gli permetteva, anche quando esprimeva concetti non proprio originali, di giganteggiare», dice Fabbri. Sarà.

Secondo Mario Guaraldi, l'editore che gli stampa, nel 1972, I pampini bugiardi, «una clamorosa inchiesta sui libri di testo per le scuole elementari», e che due anni fa gli edita Mnemotecniche e rebus, non ci sono dubbi: «Il nome della rosa vale di più di mille libri di storia medioevale. Per me è un testo cruciale, scritto in un' epoca in cui il romanzo storico era visto dagli editori con la puzza sotto il naso».

Balle. Guaraldi parla da editore, il suo giudizio è viziato all' origine, si sa che l' unico genio narrativo di Umberto Eco è quello di tramutare il verbo in sonori soldoni, è il re Mida del mercato librario, per questo Elisabetta Sgarbi, ha già annunciato che, editorialmente parlando, Eco risorgerà nel catalogo della neonata Nave di Teseo con Pape Satàn Aleppe.

Il Nome della Rosa non vale una pagina de Il Quinto Evangelio di Mario Pomilio, scritto cinque anni prima e di cui pare un' ingenua scopiazzatura; ma il capolavoro di Pomilio, passato per Rusconi e per Bompiani, è rinato, l' anno scorso, per merito del piccolo editore L' orma di Roma: del mastino, pardon, del Guglielmo da Baskerville son pieni gli scaffali di tutto il globo. Perché?

Quanto al talento narrativo di Eco, comunque, ha detto tutto Cesare Cavalleri: «Di romanzi brutti e pretenziosi Eco ne ha scritti parecchi, praticamente tutti: da Il Nome della Rosa (che è il meno brutto, ma il più cattivo) in poi, è tutta una discesa».

Proprio così: a Eco gli si perdona (merito della cinematografia) l' errore iniziale, ma lo strazio successivo è eccessivo, ingiustificato. Da Il pendolo di Foucault, un centone che fa della Cabala, della Massoneria, dei Templari e del complottismo un liquore indigesto, a Baudolino, che ricalca (superficialmente) i resoconti dei viaggi in Terra Santa, fino a libri francamente ingiudicabili, come L' isola del giorno prima, La misteriosa fiamma della regina Loana, e l' ultimo, Numero zero, una bizza senile. Per carità, scrivere brutti libri non è il peggiore dei mali. Ma la considerazione della letteratura italiana nel resto del pianeta ne esce con le ossa rotte. Francamente, essere rappresentati da Eco non è un motivo di gloria.

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