DiStImIcAmEnTe





QUANDO FU NON RICORDO,
MA VENNI PRESO UN GIORNO
DAL DESIDERIO D'UNA VITA VAGABONDA,
DANDOMI AL DESTINO D'UNA NUVOLA
CHE NAVIGA NEL VENTO,
SOLITARIA.
(Basho)

...ma ora...

STO DIVENTANDO VECCHIO.
UN SEGNO INEQUIVOCABILE E' CHE
LE NOVITA' NON MI APPAIONO INTERESSANTI
NE' SORPRENDENTI.
SON POCO PIU' CHE TIMIDE VARIAZIONI
DI QUEL CHE E' GIA' STATO.
(Borges)

venerdì 29 aprile 2011

La Repubblica e il suo Re

"La Repubblica" armata, con la spada pronta a tagliare la testa di Silvio il Caimano, non sarebbe mai esistita se non ci fossero stati i suoi lettori da combattimento.
Può sembrare banale dirlo. Tutti i giornali stanno sul campo perché c'è chi li acquista e li legge. Ma per "la Repubblica" di Ezio Mauro questo rapporto è meno ovvio di quel che possa apparire. Dal momento che una parte dei suoi lettori è sempre stata arroventata, settaria e pervasa da speranze sanguinarie assai più del direttore e dei suoi commandos.
Ne ebbi la prova nell'autunno 2009 grazie a un semplice test: analizzando con cura le lettere pubblicate dal quotidiano fra l'11 settembre e il 20 settembre. Il mio fu un sondaggio dal basso, su fonti certe perché stampate con nomi e cognomi, che nessuno aveva mai condotto. E alla fine risultò un esercizio importante per capire quali fossero gli umori profondi dei tifosi di Mauro. Persone capaci di odiare e di amare con un'intensità sorprendente.
CARLO DE BENEDETTI
L'odio era tutto per il Cavaliere, considerato uno spirito del male disposto a compiere qualunque nefandezza. Dopo il giornale-partito, ecco il giornale- guerrigliero e infine l'auspicio di un vero e proprio movimento politico. Se lo auguravano molti lettori di "Repubblica". (...).
Già, perché non fare di "Repubblica" una vera formazione politica? I militanti c'erano, come risultava evidente anche da questo microcampione. I soldi pure. Anche il leader non mancava. Era un direttore-segretario caparbio, aggressivo, più carismatico di molti big della casta partitica: Ezio Mauro, un tempo chiamato dai colleghi cronisti "Topolino". Non per deriderlo, bensì per segnalarne la velocità nell'agire e la sottigliezza del pensiero.
Dal giorno che lasciai il Gruppo De Benedetti, non ebbi più il privilegio d'incontrare Topolino di persona. Succede così nelle aziende molto compatte, animate non soltanto da un forte spirito di corpo, ma pure da una missione politico-ideale che diventa regola di vita.
ENRICO BERLINGUER
Anche a "Repubblica", anzi soprattutto a "Repubblica", vigeva una norma ferrea. Dettata dalla convinzione superba di essere il meglio del giornalismo italiano. La norma diceva: chi se ne va, non esiste più, diventa un fantasma. Da ignorare, da cancellare, da dichiarare inesistente.
Per mia fortuna esisteva la televisione. Ed esistevano i talk show della Rai e di La7, quasi tutti di sinistra. È stato grazie ai loro conduttori, dei veri sultani rossi, che ho potuto osservare più volte, da vicino, il personaggio di Ezio. L'ho visto nei telegiornali. Poi seduto sul sofà della Dandini. Quindi a spiegare che tempo faceva al cospetto di un Fazio dal cinguettio rispettoso.
Ma a colpirmi fu la sua apparizione a Otto e mezzo, il salotto della Gruber. Era la sera di lunedì 26 ottobre 2010. Non erano stati convocati altri ospiti e dunque Ezio stava faccia a faccia con la conduttrice. In un duetto solitario, diventato subito un monologo. Da una parte lei, vestita di nero Armani, smagliante, tutta sorrisi, intenta ad ascoltare il verbo di un dio in terra. Dall'altra, il direttore di "Repubblica".
BOBO STAINO
Topolino aveva appena compiuto 62 anni, ma sembrava assai più giovane. Piccolo, ben strutturato, il capello corto, l'abito impeccabile, mi rammentò quel che aveva scritto di lui sul "Foglio" Alessandra Sardoni, una giornalista molto attenta ai dettagli: «Essere Ezio Mauro, da quattordici anni alla testa di "Repubblica", appare faticoso, talvolta. Ma sulla sua capacità di resistenza fisica, sull'ingualcibilità psicomorfa, mai la testa reclinata, mai una mano tra i capelli, le testimonianze non mancano».
Volete anche la mia? Quella sera Ezio mi sembrò strapotente e arcisicuro. Spiegò con grande chiarezza quale fosse il compito di "Repubblica", l'asse portante della democrazia in Italia, il ferro di lancia nella guerra per distruggere il Tiranno. Non ricordo le domande pro forma che gli rivolse la Gruber. Forse perché, in quel caso più che mai, non avevano importanza. In compenso ammirai Ezio. E mi dissi: ecco un vero gigante, lui si mangia a colazione tutti i presunti big della casta partitica.
Le ragioni della sua forza erano più di una. Prima di tutto, Ezio conosceva meglio di qualsiasi politico la regola cardine di chi parla alla televisione. Era quella di dire soltanto una cosa, ripeterla di continuo, con poche, intelligenti varianti. Nel suo caso, il messaggio era davvero uno solo: "Repubblica" è in guerra contro Berlusconi e, prima o poi, lo distruggerà.
ANTONIO PADELLARO
La seconda carta nelle mani di Topolino era la chiarezza estrema nell'esprimersi. Di solito, soprattutto in tempi di caos politico, davanti alle telecamere i membri della casta appaiono incerti, balbettano anche quando urlano, spaccano il capello in quattro, nella speranza di avere la meglio su chi siede di fronte a loro.
Certo, la sera del 26 ottobre 2010, il direttore di "Repubblica" stava da solo davanti a una Gruber in pieno innamoramento. Ma si sarebbe condotto nello stesso modo al cospetto di cinque contraddittori. E li avrebbe stesi con la propria arrogante convinzione di saperla più lunga di loro.
Quella sera pensai che Ezio avrebbe trionfato anche se avesse lasciato il giornalismo per scendere nel campo della politica, in modo diretto e formale. Del resto, era stato lui a dire al Partito democratico: «Anche a sinistra è arrivata l'ora del Papa straniero». Intendeva l'avvento di un leader nuovo, estraneo al condominio sfasciato delle tante sinistre. Sempre in contrasto fra di loro e incapaci di uscire dal ghetto asfissiante della propria storia, segnata di continuo dalla sconfitta.
MARCO TRAVAGLIO E ANTONIO PADELLARO
Intervistato da Marco Damilano, per "l'Espresso", Ezio spiegò che cosa intendesse per un Papa nero: «Dovrà essere un leader che non risponda ad apparati e cursus honorum tradizionali. Che esprima una discontinuità. Che offra una speranza di cambiamento e di vittoria». Topolino stava alludendo a se stesso?
Nel maggio 2010, "Il Foglio" pubblicò una stuzzicante paginata su Mauro, scritta da Marianna Rizzini. E dominata da una grande fotografia di Ezio che parlava in piazza durante qualche adunata anti-Cavaliere. Il titolo diceva: Il Papa straniero. Però il sottotitolo metteva già le mani avanti: "Un'ipotesi credibile, ma non troppo".
GERO74 LUIGI LONGO GIOV MALAGO
Del resto, guidare una corazzata come "Repubblica", e insieme alimentare la militanza rovente di molti lettori, non era facile. Neppure per un cuneese tosto come Topolino.
Tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009, i guai di "Repubblica" risultavano davvero tanti. Per cominciare, era emerso il conflitto fra Carlo De Benedetti e il figlio Rodolfo, il capo della Cir. Rodolfo non voleva più occuparsi di editoria. "Repubblica" e "l'Espresso" rendevano sempre di meno. E Rodolfo sembrava deciso a disfarsene. Ma il braccio di ferro era stato vinto dal padre sul figlio.
EZIO MAURO
L'Ingegnere aveva dichiarato che, fino a quando fosse rimasto in vita, non avrebbe mai venduto nessuna delle sue testate. E si sarebbe impegnato con rinnovata costanza a guidare il gruppo editoriale. Di persona, giorno per giorno, mantenendo un contatto continuo con il primo dei suoi direttori, Topolino.
Questo punto fermo, tuttavia, non aveva bloccato la crisi di "Repubblica". Il giornale di largo Fochetti seguitava a essere una corazzata in avaria. Bilanci da brividi. Previsioni di tagli occupazionali, anche fra i redattori. Pubblicità in calo. E una perdita continua di copie.
Un dramma, dopo tanti anni fortunati. Al punto che "l'Espresso" aveva smesso di pubblicare i dati di vendita diffusi ogni mese dalla Fieg, la Federazione italiana degli editori di giornali. Per non evidenziare che il calo più forte nelle copie vendute era proprio quello di "Repubblica".
EZIO MAURO
Il black out tabellare dell'"Espresso" non fu una decisione autonoma della direttora in quel momento in carica, Daniela Hamaui, signora gentile e tremebonda. Venne imposto da Ezio, nel modo spiccio che gli era solito. Un giorno, mentre usciva da "Repubblica" per la pausa del pranzo, s'imbatté in uno dei vicedirettori dell'Hamaui. E gli disse, a brutto muso: «Quando la smetterete di rompermi i coglioni con i dati della Fieg?». Bastò quella domanda ringhiosa per far sparire la rubrica per sempre.
Poi il quotidiano di Mauro scoprì un'imprevista miniera d'oro: la campagna sui disastri matrimoniali di Berlusconi e sulla passione del Cavaliere per le ragazze in fiore. Era la fine dell'aprile 2009. E la lettera di Veronica Lario contro il marito, stampata in esclusiva da "Repubblica", fu come le rivoltellate di Sarajevo: l'inizio di una guerra mondiale. Una guerra contro il premier, naturalmente. Una guerra che Mauro combatteva da sempre. Ma senza potersi giovare di un'arma tanto micidiale.
EZIO MAURO
Un colpo di fortuna? Sì e no. Sappiamo che la fortuna aiuta gli audaci. E anche nella vita degli uomini qualunque c'è sempre chi si prepara a essere fortunato. "Repubblica" si dimostrò assai più pronta di tutte le altre grandi testate.
La signora Berlusconi accusava il marito di frequentare bellezze minorenni? Se era così, bisogna cercarle queste fanciulle. E far parlare chi poteva svelarne i segreti. In questo modo nacque il caso Noemi. E il relativo caso del suo "papi", ovvero l'incauto Silvio.
La campagna di primavera del 2009 rimise in moto la corazzata in avaria. Aumento improvviso di copie vendute, si disse almeno 30 mila. Aumento della pubblicità che languiva. Sconfitta dei giornaloni concorrenti, rimasti al palo. Trionfo mediatico del Noemigate anche presso la casta politica. Che sino al 2 giugno di quell'anno ne parlò per ben 2.236 volte, come venne certificato dall'attento "ItaliaOggi".
EZIO MAURO VAURO SENISE
A somiglianza di tutte le offensive militari, anche questa lasciò sul campo molte vittime. Le prime avevano il viso pallido dei critici che accusavano "Repubblica" di non parlare dell'Europa, tema di un'elezione imminente, bensì delle scopate, vere o presunte, del premier. Ma era un'accusa facile da respingere. Un giornale parla di ciò che vuole. Semmai ne risponderà dopo, ai lettori e all'editore.
La seconda vittima fu Dario Franceschini, in quel momento leader del Pd. Ezio Mauro gli impose una campagna elettorale diversa da quella che lui prevedeva di fare. L'obbligò a recitare il copione scritto a largo Fochetti. Lo trasformò in un replicante dell'inchiesta di "Repubblica". Dimostrando che un giornale-partito poteva essere molto più forte di un partito vero.
GIULIO ANSELMI EZIO MAURO ARRIGO LEVI
Verso la fine di quel maggio, venni invitato a Otto e mezzo per discutere di un mio libro appena uscito da Rizzoli, ''Il revisionista''. Avevo di fronte la Gruber e un'ospite tosta, Miriam Mafai. Dopo un po' di parole sul Noemi gate, arrivati al dunque chiesi alle due signore: «Ma chi non vorreste mai avere contro di voi: Franceschini o Mauro?». Entrambe schivarono la domanda, esclamando sdegnate: «Qui il problema non si pone!». Però era chiaro che l'uomo da non avere alle costole era proprio il direttore di "Repubblica".
EZIO MAURO E GIULIO ANSELMI
Non stentavo a capirle. Conoscevo Mauro da tanti anni. Non era soltanto il Topolino dei nostri scherzi di vecchi cronisti. Bensì un capo ciurma indiscutibile. Con un carattere d'acciaio. E la memoria dell'elefante. Capace di ricordarsi di un vecchio torto da nulla. Per rinfacciarlo a chi aveva osato mettersi contro. Ma pure lui aveva un piccolo problema, che non era in grado di risolvere.
Il problema era che la sua guerriglia a Berlusconi non riusciva a fargli vincere un'elezione. Aveva perso nel voto politico del 2008, poi nelle comunali a Roma, passata a un sindaco di centrodestra, quindi le regionali in Abruzzo e in Sardegna. Il partito che Mauro guidava dal suo studio a "Repubblica" uscì sconfitto anche nelle elezioni europee del giugno 2009.
ERNESTO FRANCO EZIO MAURO
Il povero Franceschini fu costretto a dimettersi. Per lasciare la poltrona di segretario del Pd a Pier Luigi Bersani, un politico poco in sintonia con Topolino. Anche perché sapeva bene che Ezio lo considerava un ferrovecchio della sinistra più vecchia. L'unica battaglia che Ezio riuscì a vincere fu quella delle copie vendute.
Per un direttore, e per un editore, in fondo era il successo che contava di più. Nel settembre 2010, "Repubblica" si trovò a un'incollatura dal "Corriere": 510 mila copie rispetto alle 522 mila di via Solferino. Mauro sostenne di essere diventato il primo in edicola. Puntare sulla militanza anti-Cav dei lettori si era rivelata un scelta trionfale. Il pensiero unico funzionava. Era un pensiero modesto. E come rivelano i messaggi dei lettori che ho citato, si riduceva a un solo grido: a morte Berlusconi! Ma era la sua traduzione sulla carta stampata a lasciarti stupefatto. Lo spiegò, con una sintesi efficace, un giornalista di sinistra, già direttore dell'"Unità", Peppino Caldarola.
DE RITA ANSELMI EZIO MAURO ARRIGO LEVI
Sul "Riformista" del 10 ottobre 2009, scrisse: «I giornalisti di "Repubblica" parlano tutti nello stesso modo. È forse il primo caso nella storia del giornalismo italiano di una così totale identificazione con le ragioni della propria testata. Sembrano usciti tutti dalla stessa scuola quadri. Sembrano tutti felicemente aderenti al centralismo democratico del nuovo giornale-partito. In anni neppure lontani, era difficile trovare due giornalisti dell'"Unità" che la pensassero allo stesso modo. Il miracolo è riuscito a Ezio Mauro che ha selezionato una burocrazia di dirigenti politici da far invidia a quella esangue dei partiti».
Ma dove il pensiero unico non ebbe effetti positivi sulle vendite fu all'"Espresso". Un esempio di crisi quasi suicida. E proprio per questo quasi fantozziano, vista la sua fama di settimanale iperintelligente. Uno dei motivi d'orgoglio dell'"Espresso" era sempre stato di essere diverso dal parente più importante, "la Repubblica". (...). Livio Zanetti, il direttore che aveva guidato la trasformazione dell'"Espresso" da giornale lenzuolo al formato news magazine odierno, era un bastian contrario.
DARIO FRANCESCHINI
Quando Eugenio Scalfari faceva il pelo e il contropelo a Bettino Craxi, lui pubblicava Il Vangelo Socialista proclamato dal segretario del Psi. Lo stesso atteggiamento di lontananza da "Repubblica" lo tennero direttori come Claudio Rinaldi e Giulio Anselmi.
Poi i tempi, e i direttori, mutarono. Le testate del Gruppo Espresso-Repubblica divennero una falange compatta. Impegnata a combattere la stessa guerra, contro lo stesso nemico, il caimano Berlusconi e con le stesse armi. Penso che anche per questo "l'Espresso" seguitò a perdere lettori. Del resto, perché acquistare un settimanale per leggere le medesime cose che stampava ogni giorno l'ammiraglia repubblicana?
Poco per volta, all'"Espresso" arrivarono al copia-incolla sistematico. Era un approdo inevitabile per almeno un motivo. Il primo fu la fragilità professionale della direzione Hamaui. Alla signora non importava niente della politica. Non ne sapeva, né voleva saperne, nulla. La considerava una faccenda poco elegante, da evitare.
Ma "l'Espresso" era sempre campato sulla politica. Anche madama Hamaui non poteva farne a meno. Pensò di aver risolto il problema sdraiandosi sulla linea di "Repubblica". E in questo modo diventò succube di Mauro, un giornalista molto più bravo e dotato di un carattere ferrigno. Madama Daniela ne aveva terrore. Sperava sempre di non sentirlo e di non vederlo. Come se fosse il mostro di Dronero, il paese natale di Topolino.
(G. Pansa)

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